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Le tradizioni auree della Trieste asburgica

10 Maggio 2019
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Giulia Bernardi

Giulia Bernardi,  perito in preziosi, gemmologia e storica della gioielleria, ha entusiasmato i presenti con la sua relazione dal titolo “Usi e costumi della Venezia Giulia: le tradizioni auree di una Trieste asburgica”. Storia e costumi ma anche interessanti spunti sui preziosi come strumenti di investimento nella seconda parte dedicata alle domande. Un argomento altrettanto interessante, che chiederemo alla dott.ssa Bernardi di approfondire in un’altra occasione.

Le donne portano gioielli. Per sentirsi più belle, per dimostrare il loro status, per rendere pubblico il potere economico della loro famiglia e del marito. Ricevono un prezioso che rappresenta più che un dono: tra la fine del Settecento e la Prima Guerra Mondiale è un vero e proprio diktat sociale, imposto dalle regole non scritte che caratterizzano la collettività nell’area Alto Adriatica. Sono quindi, per usare un gioco di parole, delle “tradizioni auree”: gli usi, i costumi di una Trieste che fatichiamo a riconoscere e che ripercorriamo nei documenti e nei ricordi per poterla riscoprire e riassaporare. Gli ori familiari si tramandano per asse femminile – costituiscono parte cospicua della dote -, le donne possono disporne senza l’intervento del marito (anche per supportare in momenti di difficoltà la famiglia stessa), rendono pubblico il loro ceto sociale e la sua eventuale elevazione, sono espressione e prova di fatti accaduti o che stanno per accadere, segnano – sottolineandolo – ogni “rito di passaggio”.  Perciò dalla nascita, alla Comunione, alla Cresima, al fidanzamento, al matrimonio, sino alla morte (con i gioielli da lutto) rappresentano un veicolo di comunicazione con regole esatte e imprescindibili.  Ed infine: il valore apotropaico delle forme, dei colori, delle gemme, dei metalli usati sono precise indicazioni – visibili e condivisibili – del carico simbolico e del messaggio che quell’oggetto deve contenere per assolvere alla sua funzione privata, di dono sentimentale, e pubblica, di rendicontazione della stessa alla società. Nella seconda metà dell’800 anche gli uomini amano agghindarsi con oggetti preziosi che ne sottolineino il potere sociale: catene da orologio, importanti “cipolle” da esibire con suonerie e carillon, gioielli da lutto, anelli con sigillo, orecchini (anche tra i ceti più elevati), spilloni con gemme da terre lontane, costose e rare.

E’ una sorta di antico “Facebook”: la collettività deve essere facilmente e immaginificamente resa edotta di una serie di notizie, accadimenti, ruoli sociali attraverso le regole che scandiscono il vivere comune.    Giulia Bernardi

“Antiquari in cattedra”   di Giulia Bernardi

Gli ori, gli argenti e le valute che l’Archivio di Stato ha conservato in questi anni, ereditá del Governo austriaco prima e dell’Intendenza di Finanza italiana in seguito, non possono essere considerati una collezione “tout court”, in quanto non raccolti con finalitá da demologi o storici dell’oreficeria: essi provengono, invece, da lasciti ereditari, pegni per crediti, contenziosi legali. Per tale motivo ci raccontano, con fedeltá storica quasi assoluta, gli ultimi due secoli della cittá, testimoni silenziosi della vita, del progresso, della ricchezza e delle difficoltá che Trieste ha vissuto.

Il corpus che abbiamo esaminato si compone di 9460 pezzi, di cui 8497 tra banconote e monete di piú o meno rilevante interesse numismatico, 201 argenti da tavola, 736 preziosi, ori e gioielli (anche in argento o metallo), nonché 26 articoli curiosi o particolari, quali binocoli, occhiali, portamonete e persino un revolver a tamburo.

La perizia di alcuni pezzi ci ha messo in difficoltà: la mancanza di confronti, bibliografia sulle usanze e sui costumi correlabili all’uso del gioiello nelle nostre zone tra XVIII e XIX secolo, la difficile disponibilità o reperibilità di elaborati e ricerche in merito, ha reso questo lavoro stimolante ma anche denso di complicazioni che, spesso, ci hanno tenuti svegli fino a tarda notte.

Ne è seguita un’analisi globale degli oggetti, onnicomprensiva, un’indagine che si è preoccupata di fornire un’indicazione sulla provenienza geografica, sulla collocazione storico temporale, sulla contestualizzazione all’interno di logiche tradizionali, sull’affinità a tipologie simili e con produzioni artigianali riconducibili ad alcune botteghe orafe, interpreti delle mode e dei costumi delle nostre terre.

Agli albori del XIX secolo, Trieste é in piena espansione commerciale, caotica, con un porto dalle caratteristiche forse piú levantine che asburgiche, ma che riesce a competere e sopravanzare Venezia proprio per la maggiore elasticitá fiscale e normativa: questa libertá si riflette anche nelle cosiddette arti minori, soprattutto l’oreficeria, che richiama artigiani dalmati, istriani, veneti ed ebrei, spinti dalla crescente richiesta, soprattutto privata.

Questa è la chiave interpretativa che abbiamo adottato: la storia filtrata attraverso i gioielli.

Analizzando i lotti in un’ottica romantica, è possibile ricostruire il patrimonio aureo e prezioso delle famiglie locali, attraverso scelte comuni, imperniate su tradizioni sociali e affettive, con il tramandarsi ( normalmente di madre in figlia) gli oggetti cari, che, quindi, affondano le loro radici nei decenni precedenti; tramite una rilettura di affetti e legami sentimentali regolati, spesso, da usanze inderogabili ben precise -quasi stereotipate- dei regali obbligatori che scandivano le tappe più importanti della vita sociale ed intima, comuni a tutto il popolo, anche a chi ne aveva scarse possibilità. Per tale motivo è ben fiorente il mercato del similoro, del dorato, del metallo somigliante al prezioso, associato a vetri, strass e paste vitree che soppiantano egregiamente i corrispondenti costosi e di valore. Gli “ori” dedicati alla nascita, alla Comunione, al fidanzamento e al matrimonio sono rappresentazione di un dovere sociale, di quell’irrinunciabile patrimonio femminile di cui la donna adulta disporrà anche in caso di bisogno; saranno parte della sua dote prima e della sua personale ricchezza poi, da tramandare alle figlie. Ma non dobbiamo dimenticare, nel contempo, che il regalo prezioso e la sua esibizione, sono scelte maschili: spesso, nel caso della donna maritata,volte più alla dimostrazione del proprio potere economico e del proprio prestigio sociale che non alla semplice relegazione ad omaggio in forma privata.

Abbiamo cosí rivissuto i tempi di una vecchia Trieste, insolitamente loquace nel voler raccontarsi: l’iniziale approccio, sterilmente sotteso all’analisi scientifica ed alla quantificazione di un valore, si é presto mutato in un viaggio nel tempo, che ci ha permesso di estendere i nostri studi – spinti da una sorte di fascinazione via via crescente – alla risultante sentimentale ed emotiva che quei pezzi portavano con sé, alla storia delle nostre genti, alle tradizioni, agli usi ed ai costumi dei nostri avi.

Abbiamo potuto “sentire”quegli oggetti cari e tramandati nelle famiglie, li abbiamo vissuti valutandoli, ma nel contempo, ci siamo sentiti triestini, interpreti di quel miscuglio di culture ed etnie che scorre nel nostro stesso sangue.

L’analisi dei lotti

Le buste contenenti i preziosi, numerate, inizialmente ci sono parse eterogenee quanto a scelta ed associazione dei pezzi, soltanto in un secondo momento si sono a noi svelate comunicandoci la loro origine comune, la loro omogeneità di provenienza: sono le “ cose di casa” che appartenevano ad una famiglia anche da fonti ereditarie, cose di mamme, nonne, spesso di cui ci si disfava per bisogno o per causa di forza maggiore, scegliendole, se possibile, tra quelle meno care o meno usate. Indicheremmo in questa ragione alcuni ritardi stilistici con i quali, vista la datazione desunta dall’insieme dei pezzi del lotto, compaiono le nuove correnti e le nuove mode in campo orafo: chi doveva alienare i propri preziosi dai beni familiari, preferiva sicuramente scegliere le cose vecchie o in disuso, rispetto quelle più nuove e con un legame sentimentale attuale.

Un altro dato che si evince con facilità è la condizione economica del proprietario: è possibile identificare il lotto proveniente dal ricco borghese, dalla famiglia agiata; ma è ancora più immediata l’identificazione – rappresentando poi gran parte dei lotti analizzati – delle condizioni del popolo, delle famiglie che costituivano, fino all’insediarsi della borghesia, la maggior parte del tessuto sociale.

Gli oggetti sono spesso retaggio degli antichi costumi e tradizioni rurali, legati agli eventi più significativi della vita: gli orecchini -o buccole- regalo della “santola”, il crocifisso o la medaglietta sacra avuta in occasione della Cresima, i doni di fidanzamento e nuziali ( l’anello, la fede, la spilla, le collane con i grani di corallo o le perle di granato..), gli orecchini con le pietre o le “verete” da portare tutti i giorni, spesso oggetti molto antichi poichè ereditati dall’asse femminile.

Spiccano importanti catene “manin”, collane ottenute con la lavorazione di lega d’oro ricavata dalla fusione degli zecchini a titolo alto, denominate “cordon d’ oro” (erano parte della dote che la sposa riceveva dalla propria famiglia, prima delle nozze); oreficerie boeme con granati, realizzate per lo piú nella lega cosiddetta “oro granata”, a basso titolo aureo; catene da orologio, oreficeria e argenteria simbolica e apotropaica.

Proprio quest’ultimo aspetto ci racconta di una societá in evoluzione ma pur ancorata a credenze e superstizioni vecchie e nuove: accanto alla tradizionale oreficeria propiziatoria e sentimentale, contraddistinta dalla presenza della pietra rossa ( beneaugurale, rappresentava amore e passione), del corallo (elemento che riuniva in sé il mondo animale e vegetale – nonché il colore rosso – protettore contro il malocchio) e delle perle (propiziatrici di feconditá e fedeltá coniugale), incontriamo talismani relativamente recenti per l’epoca, quali il numero 13 (buona sorte), il gobbo (il male altrui, se toccato, esorcizzava il proprio), il teschio (“memento mori”), fino a numerose varianti della medaglia istriana (ispirata alla moneta di Kremnitz del XVIII secolo) che raffigura al dritto San Giorgio che uccide il drago e al verso la nave in tempesta entro il motto “in tempestate securitas”, amuleto per i marinai e la buona navigazione.

Ingente il numero di gioielli in argento: a questo metallo infatti, assimilato al candore lunare ed alla purezza che ne derivava, era associato il potere di allontanare gli spiriti, amplificato se lavorato in modo da tintinnare, sugli orecchini, sui bracciali, sui sonagli dei bambini.

A metà del XIX secolo gli oggetti si diversificano secondo le richieste della nuova committenza, raffinandosi in gusto e valore: si diffonde l’oreficeria maschile ed alcuni oggetti di uso comune vengono riproposti in chiave preziosa per l’uomo: i primi anelli, con pietre talismaniche, con l’iscrizione delle iniziali, anche con sigilli incisi ( alcuni piuttosto pretenziosi essendo in metalli dorati); l’orecchino singolo, primo tra tutti il moretto, regalato secondo l’usanza fiumana al primogenito maschio, la cui difficoltà di attuazione era considerata auspicio della vita futura; bottoni ricercati, catene da orologio, temperini (“britole”), portamatite.

Anche la diversitá delle banconote e delle monete acquisite dalla seconda metá dell’Ottocento, testimoniano una cittá cosmopolita, in cui convergono traffici dall’Italia, dall’Istria, dalla Dalmazia, fino alla Turchia e all’Africa mediterranea. Tra i lotti troviamo valute rumene, russe, del neonato Regno dei Serbi, Sloveni e Croati, nonché rarissimi dollari emessi da banche private americane, di rilevante valore numismatico.

Numerosissime le banconote in Korone austroungariche: dal 1900 in poi, erano le uniche ad avere corso legale nell’Impero. Dopo la Grande Guerra la disastrata economia del paese obbligó la nuova Repubblica d’Austria a stampare le banconote circolanti sul suo territorio con la scritta “DEUTSCHÖSTERREICH”. Per quantificare quanto esse fossero pregiate prima del conflitto, basti pensare che tali biglietti erano scambiabili in oro, presso la banca: 1000 Korone cartacee equivalevano a 10 monete auree da 100 Corone (valore odierno circa 650 euro a moneta), le 125 banconote da 1000 Korone rinvenute in un singolo lotto, avrebbero dunque avuto un controvalore, al cambio odierno, di 812.500 euro.

Giulia Bernardi

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