Gli aromi di Ippocrate. Le Spezie.
Il dott. Fabio Cavalli, medico radiologo in Trieste, ma anche cultore medievalista, ci ha accompagnato in un grande viaggio nell’Oriente parlandoci delle vie delle spezie. Le spezie sono da sempre protagoniste di lunghi viaggi: imperatori, re, aristocratici e mercanti le consideravano i prodotti più pregiati delle antiche rotte commerciali, e secondo alcuni fu proprio il redditizio commercio delle spezie a favorire le principali innovazioni nella navigazione, le esplorazioni e la scoperta di alcune nuove aree geografiche della Terra.
Fabio Cavalli è socio fondatore e Presidente dell’Accademia Jaufré Rudel di studi medievali per lo studio dell’arte, della cultura e delle tecniche di vita materiale del medioevo europeo.
Fabio Cavalli
Gli aromi di Ippocrate. Per una storia medica delle spezie.
Le spezie sono un elemento sempre più inusuale della nostra tavola quotidiana. Anche se la pepiera è un oggettino che fa mostra di sé nelle trattorie e nei ristoranti (ma in quelli “buoni” troneggia il macinapepe, generalmente sontuoso e un po’ volgare), rimane più che altro un elemento tradizionale che non frequentemente usato. Una certa “meridionalizzazione” della cucina italiana, dovuta specialmente al diffondersi delle pizzerie ha favorito l’uso del peperoncino piccante, ma della tavolozza incredibile di aromi speziati del passato è rimasto davvero poco o nulla. I gusti ovviamente cambiano e le spezie, che hanno cambiato le sorti della nostra storia occidentale, sono oggi un po’ dimenticate. Come un vecchio busto d’eroe che nessuno più conosce posto in un giardino pubblico.
L’affermazione che le spezie abbiano avuto un peso fondamentale nella storia del mondo occidentale non è esagerata: tutt’altro. Ma dobbiamo andare per ordine perché il cammino lungo, lungo quasi come il percorso del pepe, della galanga, dei grani del Paradiso che dall’india subtropicale o dalla Cina occidentale arrivavano in Europa traversando steppe e deserti o pericolose navigazioni oceaniche. Quando Cristobal Colòn, altrimenti conosciuto come Cristoforo Colombo, sbarcò dalle parti di Santo Domingo, credette di essere arrivato a Ceylon, perché era lì che voleva arrivare: proprio nella favolosa terra delle spezie. Ma già nell’Antichità greco-romana erano state costruite strade, aperti tracciati terrestri e marittimi per due cose molto importanti che l’Oriente poteva fornire, in altre parole seta e spezie. Ma soprattutto le spezie, per i motivi che vedremo. Pur ignorando il grano di pepe nella narice del corpo mummificato del faraone Ramses II, morto del 1212 a.C., Plinio il Vecchio, il grande naturalista romano, ci informa che solo per la provvista di pepe nell’Impero si spendevano cinquanta milioni di sesterzi, cifra decisamente ragguardevole. Nella costa occidentale dell’India centro-meridionale si trova la città di Eyyal che conserva i resti dell’emporio romano di Maziris che spediva le spezie, via mare, a Roma. Il percorso era molto lungo: si costeggiavano le coste indiane, si entrava nel Mare Arabico e si approdava al porto di Spasinocarax, nell’attuale Yemen. Da qui, a dorso di cammello le spezie si avviavano verso i porti del Mediterraneo orientale, specialmente a Damasco. Intorno al secolo d.C. le navi da carico romane impararono a sfruttare i monsoni, raggiungendo quindi facilmente le coste orientali dell’Egitto, da cui le spezie arrivavano alle coste meridionali del Mediterraneo e poi a Roma. Il commercio e l’importazione delle spezie non cessò neanche dopo il collasso dell’impero Romano: censi annuali di alcune libbre di pepe si riscontrano nei contratti d’epoca carolingia e comunque negli infirmari dei monasteri le spezie erano usate assieme alle varie erbe medicinali locali.
Il Medioevo importò tonnellate di spezie d’ogni genere dall’Oriente e così il Rinascimento. Il commercio delle spezie subirà una certa flessione nel XVII e XVIII secolo, mantenendosi poi costante ma certamente non ai livelli dei secoli precedenti.
Gli storici si sono spesso domandati il motivo di questa intensa e continua importazione di spezie sin dall’Antichità, non trovandone una vera ragione apparente. Si trova ancora, ahimè, in qualche manuale di storia la diceria che le spezie servissero a conservare e a coprire il sapore della carne e del pesce eventualmente avariato, visto che non c’erano ghiacciaie nelle case e tantomeno frigoriferi. Teoria piuttosto imbarazzante, poiché le spezie non hanno capacità antisettico – conservative (per quello c’è e c’è sempre stato il sale) e soprattutto che non servono assolutamente a coprire il sapore di vivande avariate. Provare per credere. Tanto più che una scorsa anche superficiale ai regolamenti di vendita e di macellazione sia delle città romane sia delle città medievali ci dimostra che la carne veniva venduta appena macellata e il pesce appena pescato, con tutta una serie di obblighi del venditore e una lunga teoria di pene pecuniarie e corporali ai trasgressori. Certamente qualcuno, ricco e potente, usava le spezie in abbondanza come status symbol: però quando Dante, per ribadire che i Senesi erano “gente vana” e dediti al lusso e ai piaceri ci racconta della “costuma ricca del garofano” (Inf. XXIX, 127), ci segnala indirettamente che prima della seconda metà del XIII secolo il chiodo di garofano non veniva adoperato a Siena (figuriamoci a Firenze) per scopo voluttuario. Quindi sull’uso voluttuario delle spezie ci sarebbe qualcosa da obiettare: c’era, sicuramente, prevalentemente nelle ricche città italiane, un uso voluttuario anche intenso delle spezie, però circoscritto a poche consorterie particolarmente agiate. Ma questo non spiega il volume dei commerci.
Facciamo un passo indietro. Teofrasto (372-287 a.C.), nel capitolo “Sugli odori” (péri osmòn) della sua Storia delle Piante dichiara che le spezie hanno la funzione di riscaldare e pertanto di favorire la digestione aiutando il processo di cottura dei cibi. Questo comincia ad essere un indizio importante, che aggiunto a quanto leggiamo in Galeno (ad esempio nel De Facultatibus Alimentorum), ai ricettari romani imperiali e tardo-antichi (Scribonio Largo, Marcello Empirico, pseudo-Plinio ecc.) alle compilazioni altomedievali di rimedi, per arrivare ai testi “salernitani” (un esempio per tutti la Summula Musandini) e genericamente universitari di medicina, ci permettono di affermare che il ruolo principale delle spezie era quello di entrare a far parte dei medicamenti complessi, cioè dei farmaci ed inoltre di essere utilizzate in cucina per “correggere” le caratteristiche qualitative di alcuni cibi, come ci ricorda il medico milanese duecentesco Maino da Mainerii nel suo Opusculum de Saporibus.
Non è questo il luogo per tentare di riassumere il complesso universo teorico della medicina di stampo galenico sia come venne recepita dal mondo tardo-antico che da quello medievale (ma non solo: l’onda lunga del galenismo medico arriverà, per alcuni aspetti, sino alla metà del secolo scorso) e che è nota come “medicina umorale”. In effetti, il termine “umorale” è abbastanza fuorviante, giacché più che di umori, nel nostro caso entrano in gioco le “qualità”, in altre parole le caratteristiche della materia, vivente o meno, classificabile attraverso due coppie di qualità opposte, cioè caldo/freddo e secco/umido, qualità che sono attribuibili anche agli umori circolanti nel corpo umano, ovvero sangue, flemma, bile gialla e nera. La digestione è quel meccanismo che attraverso l’azione del calore naturale dello stomaco dapprima e del cuore dopo scompone (cuoce) il cibo in umidi elementari che coagulandosi formeranno nova carne. Questi umidi possiederanno le caratteristiche qualitative del cibo ingerito. In pratica, proprio attraverso questo complesso sistema di sostituzione del corpo tramite la digestione e la coagulazione noi “siamo”, fisicamente parlando (ma non solo), quello che mangiamo. Se cibum nutrit inquantum est potentia caro, ovvero il cibo nutre perché è carne in potenza, secondo il detto aristotelico caro a san Tommaso d’Aquino, la carne in atto possiederà a sua volta le caratteristiche del cibo mangiato. Ma non tutti i cibi saranno idonei a fare buona carne: i cibi freddi e umidi creeranno umori flemmatici e carne grassa e fredda e malaticcia, tanto per fare un esempio. Le spezie, di natura generalmente calda e secca potranno correggere, durante il meccanismo della digestione, la freddezza e l’umidità, restituendo al cibo il giusto equilibrio per trasformarsi in carne sana. Ovviamente questo genere di precettistica passò nella cucina quotidiana in maniera trasparente, ovvero sotto forma di precetti o di consuetudini. Non per nulla si usa il pepe per aromatizzare il prosciutto: la coscia del maiale è tendenzialmente fredda e umida, ed anche se viene disseccata dal sale di stagionatura, va corretta col pepe, caldo e secco. Ovviamente non c’è solo il pepe nel bagaglio dietetico del medico antico: le spezie sono numerosissime sia per agire attraverso una certa sinergia sia per motivi, questa volta si, aromatici e quindi di fatto gastronomici.
Nel complesso mondo teorico della farmacologia antica però non esistono solo le virtù sostanziali dei farmaci. Alcune sostanze possono agire anche per virtù formale, attraverso un’armonia del proprio essere con il corpo. Un caso interessante è quello dello zafferano, presente in molte vivande antiche nonché in farmaci, specialmente a scopo ricostituente. Se il nome zafferano rimanda con il prefisso -az o -za alla natura dell’oro (azupir in accadico, azugna in sumero, al-zafran in arabo), nelle lingue di radice indoeuropea assume caratteristiche legate agli organi fondamentali del corpo attraverso i prefissi *kr *ka *ke come in krokos (zafferano) ma anche in kefalé (testa) o kardios (cuore). Oro potabile, dunque, affine alle parti nobili del corpo e soprattutto al cuore sede del calore naturale e dello spirito vitale.
Un mondo complesso quindi, quello delle spezie, come complesso era il suo approvvigionamento attraverso strade che traversavano terre da sempre (e ancora oggi) instabili come ad esempio l’attuale Afghanistan. Spezie che si muovevano assieme ad animali ed uomini da un caravanserraglio ad un altro, da un porto ad un altro. Furono attraverso le pacificate vie della massima espansione dell’Impero romano che arrivarono malattie infettive letali sconosciute dagli abitanti del Mediterraneo. Le vie veloci permisero ai mercanti e ai loro servi ammalati di non morire per strada ma di infettare un caravanserraglio dopo l’altro. Vaiolo, morbillo e rosolia decimarono la popolazione costiera mediterranea tra III e IV secolo, costringendo uno spostamento di popolazione da nord a sud, con indebolimento del limes e costringendo all’impiego di popolazioni barbariche a loro difesa. L’inizio della fine. Poi nel VII secolo, con l’Impero Bizantino che controllava i traffici orientali arrivò una delle malattie più letali della storia: la peste nera, che portò ad uno spopolamento tanto intenso che segnerà un periodo difficilissimo nella storia europea sino all’XI secolo. La pax mongolica del XIV secolo, quella che permise a Marco Polo di arrivare sano e salvo alla corte di Qubilai Khan e che rese sicure le strade delle spezie del medio Oriente riporterà la peste nera in Europa, nel 1348, con conseguenze disastrose: da metà a tre quarti della popolazione scomparve, e a più riprese. L’ultima epidemia di peste, avvenne in pieno XVIII secolo con ulteriori centinaia di migliaia di morti. Spopolamento, crisi produttiva, contrazione dei commerci. L’Europa della prima età moderna visse un incubo ricorrente che marchiò le sue scelte politiche e sociali, ingabbiandola nel terrore della morte e nel merito della vita eterna. Anche grazie alle spezie che da piacere della tavola e strumento di buona salute si trasformarono, inconsapevolmente, in arbitri della Storia.