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La grande guerra. Uomini divisi: la scelta tra Patria e Nazione.

30 gennaio 2015
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Pierluigi Sabatti con Carlo Borghi

La Grande Guerra coinvolse milioni di uomini.  Il dott. Pierluigi Sabatti,  giornalista e scrittore,  ci ha raccontato di una parte di essi: di coloro che morirono “sotto la bandiera dello straniero” come scrive Miroslav Krleza, uno dei più grandi scrittori croati del Novecento. O che “sfuggirono alle granate, ma vennero distrutti dalla guerra, come racconta nel fondamentale “Niente di nuovo sul fronte occidentale” Erich Maria Remarque.

Uomini che dovettero imbracciare il fucile contro i loro connazionali, che avevano un’altra cittadinanza. Dalle province italiane, o meglio a maggioranza di italofoni, come il Trentino e la Venezia Giulia, il 99 per cento degli uomini abili alle armi servì nell’esercito della duplice monarchia. Le loro esperienze sono rimaste custodite negli armadi delle storie familiari, evitando di parlarne troppo per l’orgia patriottarda seguita al conflitto. La retorica irredentista, di cui il fascismo di frontiera si servì a piene mani, celebrò i pochi che avevano disertato ed erano andati a combattere con gli italiani, come Nazario Sauro, Scipio Slataper, Giani Stuparich, e calò un velo di oblio sugli altri.

“Uomini divisi: la scelta tra Patria e Nazione” di Pierlugi Sabatti    (testo in pdf)

Gli spari di Sarajevo il 28 giugno 1914 non uccisero soltanto l’erede al trono della duplice monarchia, ma distrussero anche un mondo. “Il mondo di ieri” rievocato da Stefan Zweig.
Sgombro subito il campo da accuse di nostalgie austriacanti, perché non valuto quel mondo migliore del nostro o peggiore, ma voglio raccontarlo perché era il nostro mondo, quello in cui la nostra città è cresciuta e ha prosperato, quello che l’ha connotata profondamente, tanto da farla essere ancor oggi diversa dalle altre città della Penisola.
Un mondo pieno di contraddizioni, che sono state poi quelle che lo hanno portato alla rovina. Un mondo in cui gli italiani erano visti con sospetto, la duplice monarchia era afflitta da quello che io chiamerei il “complesso di Solferino”, dopo l’amara sconfitta subita ad opera dei piemontesi, alleati ai francesi, dall’esercito imperiale, capeggiato da Francesco Giuseppe, che aveva appena cacciato il comandante in capo Gulay. Con Solferino e San Martino si concluse la seconda guerra di indipendenza italiana e Vienna rinunciò ai territori nella Penisola, eccezion fatta per il Trentino e la Venezia Giulia, e cambiò la sua politica nei confronti degli italiani rimasti nei confini imperiali. Ma questo è un altro interessante discorso che magari potremo affrontare in altra occasione.
Quello di cui desidero parlare oggi è il destino tremendo in cui si trovarono precipitati milioni di uomini sulle trincee della Grande Guerra. E di una parte di essi desidero parlare: di coloro che morirono “sotto la bandiera dello straniero” come scrive Miroslav Krleza, uno dei più grandi scrittori croati del Novecento. O che “sfuggirono alle granate, ma vennero distrutti dalla guerra”, come racconta nel fondamentale “Niente di nuovo sul fronte occidentale” Erich Maria Remarque. Uomini che dovettero imbracciare il fucile contro i loro connazionali, che avevano un’altra cittadinanza.
Ci fa da Virgilio in questo incontro con gli uomini divisi tra la lealtà allo stato in cui vivono e l’appartenenza culturale Antonio Budini, autore di un bellissimo testo dal titolo “Le memorie di guerra di papà”, edito da una piccola ma combattiva casa editrice triestina la “Beit”, diretta dal nipote di Antonio, Piero Budinich. Ricordo ancora che Antonio Budini era il padre di Paolo Budinich, il grande scienziato che ha dato vita al Centro di fisica teorica di Miramare, dal quale è nata la cittadella scientifica di Trieste, l’unica realizzazione culturale ed economica autenticamente innovativa nata nella nostra città dopo il secondo dopoguerra.
Tornando all’argomento, ancora un dato da tenere presente: anche dalle province italiane, o meglio a maggioranza di italofoni, come il Trentino e la Venezia Giulia, il 99 per cento degli uomini abili alle armi servì nell’esercito della duplice monarchia. Le loro esperienze sono rimaste custodite negli armadi delle storie familiari, evitando di parlarne troppo per l’orgia patriottarda seguita al conflitto. Pensiamo soltanto a come fu trattato Julius Kugy: nel 1941, la polizia italiana arrestò a scopo preventivo gli elementi considerati filo-slavi, tra essi anche l’ottanatreenne dottor Julius Kugy, forse per i suoi trascorsi di Alpiner Referent. Kugy fu rinchiuso al Coroneo in una cella sovraffollata e con un secchio per espletare i bisogni fisiologici davanti a tutti. Non è difficile comprendere cosa ciò dovesse significare per Kugy il cui senso della dignità era altissimo.
La retorica irredentista, di cui il fascismo di frontiera si servì a piene mani, celebrò i pochi che avevano disertato ed erano andati a combattere con gli italiani, come Nazario Sauro, Scipio Slataper, Giani Stuparich, e calò un velo di oblio sugli altri.
Anzi, riguardo a questi ultimi, venne esaltata la leggenda dei “demoghela”, espressione intraducibile per dire “diamocela a gambe”, titolo di una canzone di guerra. Il riferimento è ai feroci combattimenti avvenuti a Leopoli in Galizia (oggi Ucraina).
Si tratta di un falso storico, secondo il quale i soldati del 97mo, costituito appunto da triestini, istriani, friulani, sloveni e croati del Litorale si sarebbero distinti per aver capitolato davanti al nemico. Per essere fuggiti invece di combattere. Ebbene la ricerca storica ha smentito questo assunto: Roberto Todaro nel suo “Dalla Galizia all’Isonzo, storia e storie dei soldati triestini nella Grande Guerra” spiega che l’espressione è ambigua e potrebbe anche significare “diamogliele” “diamogli addosso” al nemico, quindi potrebbe voler dire l’esatto opposto che darsela a gambe. E porta la testimonianza di Silvio Benco, il quale, pur essendo un esponente irredentista triestino di spicco e nemico giurato dall’Impero, riporta con equilibrio la parte più tragica dell’esperienza militare del 97mo nei giorni della battaglia di Leopoli. Il reggimento – scrive Benco – prima di cedere alla supremazia dei russi “si era tenuto al fuoco con valore; di che poi si ebbe conferma nella citazione del 97mo all’ordine del giorno”. Anche un altro storico triestino, Lucio Fabi, in “Viva il fascio e l’acqua calda”, conferma la tesi di Todaro,
Del 97mo parla anche Scipio Slataper, scrittore irredentista che morirà sul Monte Calvario il 3 dicembre del 1915 combattendo per l’Italia. Al tempo della battaglia di Leopoli, settembre 1914, Slataper è ancora a Trieste e così scrive: “il dolore e l’indignazione di Trieste per le terribili stragi fatte dei loro in Galizia e nei confini serbi, sono fortissimi. Feriti giunti a Trieste narrano che i tre battaglioni del 97mo reggimento locale, composto per almeno due terzi di italiani, sono stati condotti al fuoco in questo barbaro modo. Entrati in un bosco dopo molte ore di marcia fu ordinato l’alt e subito dopo il riposo fu nuovamente sospeso. Mancavano ordini. Il comando non sapeva cosa fare. Finalmente si trovò a dare l’avanti, ma nel frattempo una quantità di ufficiali si dileguò. Appena usciti dal bosco i soldati si trovarono di fronte improvvisamente le mitragliatrici russe piazzate a poche centinaia di metri che con un fuoco infernale li distrussero. Dei 3000 soldati appena 400 riuscirono a salvarsi e di questi arrivarono a Leopoli non più di 50. A Leopoli però trovarono i loro ufficiali freschi e ben rifocillati”.
Certamente la versione di Slataper è piena di livore nei confronti dell’esercito imperiale, però si evince che i soldati del 97mo sono stati sopraffatti per colpa dei loro ufficiali (da notare che in generale questi ultimi non erano italiani) ma non per vigliaccheria o perché si sarebbero arresi per boicottare l’armata austriaca. E lo dimostra anche un’altra testimonianza, raccolta da Todaro, quella del giornalista del Corriere, Arnoldo Fraccaroli, inviato sui fronti di guerra austriaci (ricordo che l’Italia è ancora neutrale e alleata dell’Austria) il quale con obiettività narra la sanguinosa disfatta austriaca. Fraccaroli ha anche l’avventura di incontrare in un piccolo ospedale militare alcuni sopravvissuti del 97mo che gli raccontano le loro vicende, da cui non emerge l’”abbandono” da parte degli ufficiali di cui parla Slataper, anzi Fraccaroli non nasconde una certa ammirazione dell’esercito austriaco nei rifornimenti e nei servizi ai soldati in battaglia.
Ma, sgombrato il campo dalla leggenda dei “demoghela”, torniamo all’esperienza di Antonio Budinich (allora si chiamava così, la ch finale la “perderà” successivamente come tanti in questi nostri territori) che nel luglio del 1914 viene richiamato. La convocazione gli arriva a Trieste dove insegna lettere alla Civica Scuola Reale di via dell’Acquedotto. Ha 35 anni, una figlia piccola, un padre e una sorella in cattive condizioni di salute. Tutta la famiglia, che vive da generazioni a Lussingrande, dipende da lui.
“Più rabbioso che disperato” Budinich va in guerra: lo aspetteranno quattro anni “straordinari” che lo porteranno sui fronti del Montenegro e dell’Italia. La sua guerra comincia in maniera dolce a Grado, dove fa più il turista che il soldato. Un servizio leggero grazie a un problema a un piede, che i medici militari compiacenti e comprensivi enfatizzano.
Un altro infortunio, più grave, tre anni più tardi, quasi sicuramente gli salverà la vita.
Ma andiamo con ordine: la “copertura” del piede malato non regge oltre e Budinich viene mandato sul fronte del Montenegro dove fortunatamente non combatte, ma assiste alle battaglie con i montenegrini. Da lontano, è testimone dell’epico combattimento tra poche migliaia di montenegrini e l’esercito austro-tedesco che aveva sfondato il fronte serbo e stava inseguendo l’esercito di Belgrado in fuga. E’ l’autunno del 1915.
Le aspre montagne, i boschi, le selvagge pianure attraggono Budinich che è un uomo curioso e approfitta anche di questa situazione per imparare un po’ di serbo-croato e per conoscere questa gente: le donne belle, che presto sfioriscono per il durissimo lavoro nei campi e in casa, gli uomini fieri come principi anche se sono contadini poverissimi. Le descrizioni dell’ambiente naturale, delle case e della popolazione sono veramente godibili e rimandano alla letteratura da viaggio, tipica del Nord Europa. Non dimentichiamo che Budinich parla perfettamente il tedesco.
Come sono belle le descrizioni dei compagni d’arme, dalle quali emerge un’altra caratteristica dell’autore: non ha pregiudizi etnici. E lo dimostrerà nelle pagine successive distribuendo simpatie e antipatie senza che esse siano legate alla provenienza delle persone che gli capita di incontrare, ma che riguardano semplicemente il loro comportamento. Ed emerge pure la plurietnicità dell’esercito imperialregio, dove si mescolano lingue e provenienze in modo molto naturale, anche quando vengono alla luce i contrasti, gli odi atavici, le rivalità.
Caratteristiche queste, che emergono dalle lettere pubblicate nel volume sopra citato di Roberto Todaro. Nell’incontro, di cui ho parlato, dell’inviato del Corriere con alcuni dei sopravvissuti del 97mo si legge uno scambio di battute significativo con un triestino che, indicando alcuni commilitoni, afferma: “No i xe triestini, questi: croati i xe. Al suo paese, peste. Ma qua i xe bona zente, e po’ i xe soli e abandonà anca lori, pori cani”. Le atrocità della guerra fanno superare anche le differenze.
Continuiamo a seguire la vicenda umana di Budinich, il quale si sente profondamente italiano, le sue radici sono a Venezia, però è un suddito leale dell’Impero, sia pure controvoglia. La profonda contraddizione la sentirà pesantemente quando viene mandato sul fronte italiano, nelle zone dell’attuale Kranjska Gora, ai piedi delle maestose Giulie, che Budinich ammira. Quelle Giulie in cui, aggregato all’esercito imperiale come esperto del territorio c’è il citato Julius Kugy, triestino di lingua tedesca, arruolatosi volontario vista l’età.
Il fronte italiano, proprio dove Budinich non avrebbe voluto mai arrivare. Sono notti insonni e tormentate. Si affaccia il desiderio di disertare per non combattere contro i “fratelli italiani”. Ma se poi dovrà combattere contro quelli che oggi sono i suoi commilitoni, il suoi “fratelli d’arme”, in primo luogo l’onesto e fedele attendente Maricic al quale è legatissimo, come si sentirà? E poi che cosa potrà accadere all’amatissima famiglia nella natia Lussingrande, dominata da tre “austriacanti” sfegatati?
Leggiamo che cosa scrive lo stesso autore: “Più volte pensai che acuendosi la situazione, sarei passato dall’altra parte: passo pericolosissimo. La fucilazione o la forca se fossi stato sorpreso; ma non mi mancava il coraggio fisico per compierlo. Altri pensieri mi turbavano fortemente; riuscito il passaggio sarei stato preso, interrogato, avrei dovuto dare informazioni e con queste contribuire forse al danno, al massacro di tanti uomini che avevano fidato in me, di tanti camerati che come me desideravano lo sfacelo dell’Austria per riunirsi ai loro connazionali, con i quali da lunghi mesi vivevo in fraterna amicizia e in perfetta identità di idee”.
Sullo stesso fronte di Antonio Budinich, ma sull’altopiano di Asiago, c’è un altro soldato, Lovro Kuhar, sloveno della Carinzia, che racconta la sua scelta di disertare: “Stasera o mai più, a qualunque costo! Questo era il motto di Amun. Anche gli italiani costituivano un pericolo per ciò che gli era caro, ma proprio lui doveva difendere un nemico contro l’altro? Si distruggano da soli, si annientino a vicenda! Qualcosa gli diceva che il suo intento sapeva di tradimento e di viltà. Così forse avrebbero detto di lui. Ma che importava? Non tradiva nessuno, perché non poteva tradire il suo nemico, bensì avrebbe tradito se stesso servendolo. E non lo faceva neppure per viltà; sarebbe stato vile piuttosto, non porre in atto ciò che era costretto a compiere. In quel momento lo invase il doloroso pensiero dei genitori, dei familiari, che sarebbero stati perseguitati, questo sì. Ma che ne sanno a casa di come vanno qui le cose? Mi perdoneranno. E poi questa situazione non durerà in eterno. Stasera o mai più…”
Il testo riportato fa parte del romanzo “Doberdò”, pubblicato da Kuhar con lo pseudonimo Prezikov Voranc, considerato la più importante opera letteraria slovena dedicata alla Grande Guerra. Del romanzo parla la storica Marta Verginella in un interessante volume “Scrittori in trincea: La letteratura e la grande guerra” curato da Fulvio Senardi, triestino già docente di italianistica all’Università di Pecs.
Il protagonista di Doberdò, Amun Mohor è l’alter ego dell’autore, il quale patisce un’esperienza traumatica in Italia: “Due anni del più crudele carcere in Italia – scrive – e l’ambiente dei lager italiani, composto per lo più da elementi di cattiva nomea, rapinatori, assassini, ladri, ecc. (c’erano ben pochi profughi politici) mi hanno degradato completamente e hanno fatto di me un politico di strada e di osteria”.
L’atteggiamento di Kuhar è ben diverso da quello di Budinich, perché Kuhar non ha uno stato al quale fare riferimento. La Slovenia è parte dell’impero che lui odia, la Jugoslavia non esiste ancora. L’Italia è poi un potenziale nemico in cui rifugiarsi ma solo per non combattere per l’impero.
Una situazione drammatica, condivisa ad esempio dai cechi, che sono tra i primi a disertare in massa. Lo riporta il volume “L’esercito austro-ungarico nella prima guerra mondiale” di Peter Jung, storico militare viennese, prematuramente scomparso, autore di una serie di volumi sulle armate degli Asburgo. “Nel corso dei primi mesi di guerra due reggimenti di fanteria dell’esercito comune diedero preoccupanti segnali di inaffidabilità (…) il numero 28 e il numero 36 composti in misura superiore al 95 per cento da elementi di nazionalità ceca, alcuni dei quali disertarono passando ai russi mentre altri offrirono una scarsa resistenza quando le loro posizioni vennero attaccate. Di conseguenza, rispettivamente nell’aprile e nel giugno del 1915, furono sciolti per “codardia di fronte al nemico” e l’imperial regio 36 venne addirittura cancellato dall’elenco dei reggimenti “per non essere mai più ricostituito”. Ad un battaglione di marcia del 28, composto prevalentemente da boemi di origine tedesca, fu data la possibilità di redimersi combattendo contro gli italiani sull’Isonzo. Qui il comportamento venne giudicato soddisfacente e nel marzo del 1916 il reggimento fu formalmente ricostituito, continuando a battersi sul fronte italiano”.
Budinich dunque non diserta anche perché deve provvedere al sostentamento dei familiari: la situazione a Lussino (ma lo stesso avviene a Trieste, vedi il libro di Lucio Fabi “Trieste 1914-1918 una città in guerra, e in molti altri territori dell’Impero) è tragica: trovare da mangiare è sempre più difficile ed è lui, destreggiandosi in mille modi, a far arrivare viveri a moglie, figli e parenti, aiutato dal fedelissimo Maricic. Inoltre la famiglia è cresciuta di un membro, il piccolo Paolo, futuro grande fisico nato nel 1916.
Nella seduta di autocoscienza che si fa da solo, Budinich si chiede anche se questo desiderio di disertare sia soltanto un tentativo per salvare la pelle. Pagine belle e oneste. Chissà quanti dei nostri nonni o bisnonni avranno provato gli stessi sentimenti, saranno stati tormentati dagli stessi dubbi.
“Io stavo sempre in apprensione per il fatto che ero italiano sul fronte italiano: ero il solo di nazionalità italiana uno dei pochissimi che sapessero parlare l’italiano: questa circostanza poteva essermi ugualmente utile o dannosa; non sapevo io stesso se desiderare di essere mandato via come italiano o e preferire di rimanere: potevo capitare assai peggio. E sinceramente mi sarebbe dispiaciuto anche lasciare i camerati coi quali m’ero affiatato molto bene, fra i quali contavo veri amici”.
Budinich vince i suoi timori con il presentimento, che non ha alcun fondamento logico, che non sarà mai costretto a combattere i “fratelli italiani”. Gli capiterà addirittura di dialogare con loro attraverso i reticolati. Leggiamo il suo racconto: “Finita la cena, un ufficiale che era di servizio si alzò e, battendomi la spalla, mi disse: “Ora verrai con me: andremo a fare visita agli italiani, così potrai vedere i tuoi connazionali” (….). Scendemmo per la collina del Ravelnik per una complicata via attraverso le molteplici linee dei reticolati. Era una notte di luna un po’ nebbiosa, la campagna era tutta coperta di neve, quindi la luce era assai forte. Confesso che ero come trasognato: ero arrivato all’estrema linea possibile: un centinaio di metri più in la si distinguevano benissimo nel chiarore della luna, i reticolati italiani. Camminavamo allo scoperto: la nostra passeggiata notturna mi pareva una follia: buoni tiratori che fossero dall’altra parte o una raffica di mitragliatrice potevano stenderci al suolo: ma non volevo naturalmente tradire la mia apprensione; ostentavo franchezza. “Non temere – mi disse a un certo punto il mio accompagnatore – Non succederà nulla. Da molto tempo s’è stabilito fra noi e gli italiani una specie di tacito accordo: noi mettiamo ogni sera la nostre vedette notturne e loro le loro, senza molestarci: anzi qualche volta entriamo anche in conversazione con loro. Fra poco essi pure usciranno dai reticolati e potrai vederli” (….). Dopo pochi minuti vedemmo ben distinte e marcate sul bianco della neve, alcune figure all’esterno dei reticolati italiani. “Buona sera! – risposero dall’altra parte, con un puro accento toscano. “Questo e tutto quello che so d’Italiano – disse l’ufficiale – Ora continua tu”. Rimasi imbarazzato: non avrei potuto gridare, per paura di essere inteso da qualche parte, quello che era nel mio animo alla vista di quei soldati che io consideravo miei fratelli, presso i quali io avrei voluto piuttosto correre per unirmi ad essi nella guerra che essi facevano contro l’Austria e contro la Germania, che allora ai miei occhi rappresentavano l’oppressione, la violenza, la negazione di ogni libertà, l’odioso militarismo. “Che cosa devo domandare? – chiesi all’ufficiale. “Quello che vuoi – mi rispose – Domanda loro come stanno, cosa fanno, se hanno cenato, se hanno abbastanza da mangiare”. E così su questi argomenti banali si svolse tra me e quei soldati italiani un breve dialogo. Rispondevano, domandavano non senza una punta d’ironia. “Noi mangiamo molto bene, certo meglio di voi – disse uno – perché le nostre navi e quelle d’Inghilterra vi bloccano e presto, per fame, dovrete arrendervi”.
Quanto racconta Budini ha una eco nel citato libro di Lucio Fabi laddove lo storico racconta la difficilissima situazione degli approvvigionamenti alimentari alla città, tanto che già nell’aprile del 1915 si hanno i primi moti del pane e anche l’incendio del Piccolo e la distruzione del caffè San Marco si possono ricondurre principalmente a queste motivazioni, anche se la propaganda post-bellica accrediterà la tesi che erano moti fomentati dalle autorità austriache perché l’Italia era entrata in guerra contro l’Austria.
Il fronte, in quel breve periodo, è calmo, Antonio Budinich non dovrà battersi. Una calma di breve durata perché arriva un altro momento fondamentale nella guerra e nella sua vita, ma anche in quella di tutti noi: Caporetto. Budinich si salva grazie a una provvidenziale caduta. Un braccio rotto lo porterà lontano dal fronte a concludere la sua vita militare a Cormons a guidare un drappello di soldati incaricati di …coltivare i campi. La “Anbau Kompagnien”.
Il 4 agosto 1918 finalmente arriva il congedo e Budinich confessa una sensazione strana: è certamente felice, ma si rende conto che sarà difficile tornare alla vita normale dopo quegli “anni straordinari” dopo aver vissuto nell’ambiente “grandioso e fantastico della guerra”. Si badi bene non è la dichiarazione di un esaltato, Budinich fin dall’inizio del suo diario afferma con chiarezza di essere contrario alla guerra, ma è il sentire di un uomo che ha capito la straordinarietà della sua avventura umana.
L’impero, di cui Budinich, Kuhar, Slataper e milioni di altri hanno in vario modo voluto la fine, collassa, ma non perché militarmente sconfitto. Lo fa notare Peter Jung laddove afferma che quando l’Austria firma la pace i suoi confini non sono stati violati, anzi i suoi eserciti occupano territori nemici. L’Austria crolla perché i suoi popoli, quelli sempre citati da Francesco Giuseppe, si ribellano: è del maggio 1918 la rivolta dei soldati austriaci di nazionalità slovena a Judemburg, che segue quelle di Murau, Radgona, anch’esse organizzate da fanti sloveni, e quelle di Rumburk, Lublino, Rimaszombat per iniziativa di soldati di altre nazionalità. “Fu l’esasperazione – scrive Marta Verginella – dovuta alla fame, ai disagi e ai soprusi nonché alla prolungata esperienza del fronte, ma anche le aspettative rivoluzionarie coltivate dagli ex prigionieri rimpatriati dalla Russia (uscita dal conflitto il 3 marzo del ‘18 con la pace di Brest-Litovsk, ndr.) e nuovamente arruolati nell’esercito imperiale”.
L’”inutile strage” come la definì papa Benedetto XVI finisce l’11 novembre 1918. Persero la vita circa 2 milioni di soldati tedeschi insieme a 1.110.000 austro-ungarici, 770.000 turchi e 87.500 bulgari; dalla parte degli alleati ci furono all’incirca 2 milioni di morti tra i soldati russi, 1.400.000 francesi, 1.115.000 dell’Impero britannico, 650.000 italiani, 250.000 rumeni e 116.000 statunitensi. Considerando tutte le nazioni del mondo, si stima che durante il conflitto persero la vita poco meno di 9.722.000 di soldati con oltre 21 milioni di feriti, alcuni dei quali guarirono senza grosse complicazioni mentre molti altri rimasero più o meno gravemente segnati o menomati a vita. Queste cifre però non tengono conto di tutti coloro che rimasero traumatizzati dal punto di vista psicologico, colpiti da quello che oggi chiamiamo disturbo post-traumatico da stress. Questi dati non considerano nemmeno le vittime civili uccise dalla guerra; circa 950.000 persone morirono a causa delle operazioni militari e circa 5.893.000 civili perirono a seguito delle carestie, delle malattie provocate dal conflitto, quali la famosa influenza “spagnola” e dalle persecuzioni razziali scatenatesi durante il conflitto.

Pierluigi Sabatti

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