Il Porto Franco Vecchio di Trieste: riqualificazione e rilancio.
E’ stata con noi l’arch. Antonella Caroli, già segretario generale Autorità portuale di Trieste, con una conversazione sul tema “Le linee guida di un programma di riqualificazione e rilancio del Porto Franco Vecchio di Trieste”
Tema controverso, che tocca aspetti politici, legislativi e culturali, nuovamente alla ribalta della cronaca con il passo indietro di Portocittà S.p.a..
Una lettera pubblicata sul quotidiano cittadino riassume i problemi e prospetta le soluzioni per non interrompere il percorso di restituzione del Porto vecchio alla città.
“Si inizi dal recupero di quello che c’è. È doveroso intervenire, prima di ricominciare da capo con i soliti esempi di waterfront, con la rivendicazione di densità abitativa all’interno dell’area di Porto Vecchio, perché non si spopoli l’area nelle ore notturne e così via: lo sappiamo a memoria.
Troppe volte abbiamo sentito questi discorsi e mi sia consentito di esprimere il mio dissenso da queste analisi, per il bene della città e le troppe distorsioni che da troppo tempo pullulano su Porto Vecchio e sul suo riuso. Credo che di dibattiti e di illustri architetti la città ne sia stufa. Forse non si conoscono abbastanza la storia e le vicende di Porto Vecchio per riprendere strade abbandonate e che finora non hanno vinto.
Ci sono ancora casi in Europa, come il vecchio porto di Lubecca e di Fiume, dove vige ancora il porto franco, che attendono un processo di rivitalizzazione. A Lubecca già da tempo (dal 2000) i magazzini storici vengono utilizzati comunque.
Certamente il nostro complesso monumentale è unico al mondo per la sua estensione e ricchezza per quanto riguarda il patrimonio di archeologia industriale, comprensivo anche di attrezzature elettromeccaniche (come gli scalandroni della Stazione marittima che oggi si trovano davanti al Magazzino 21, come l’Ursus, “il gigante del porto”, come la gru idraulica davanti al Magazzino 6) e soprattutto di impianti come la centrale idrodinamica con i suoi macchinari originari e la sottostazione elettrica di riconversione. Oggi la centrale idrodinamica (così come il Magazzino 26), restaurata per merito non certo dei politici, è diventata il fulcro di attività espositive e di attrazione dei giovani, più di 15.000 visitatori dal giorno della sua inaugurazione (18 giugno 2012).
Non bisogna riprendere discorsi perdenti e che non potranno dare futuro al distretto portuale storico di Trieste. Mi spiace che Portocittà, che è stata accolta con ampia collaborazione di molti, abbia poi chiuso le porte del Magazzino 26. Nonostante la Biennale diffusa (2011), che aveva dato impulso all’apertura degli spazi e della bretella che porta da largo Santos a viale Miramare, la fondazione di un comitato internazionale sul Porto Vecchio, e di un gruppo locale e nazionale di supporto che hanno seguito costantemente il percorso intrapreso e l’azione di diffusione in Europa (grazie a Italia Nostra), non si capisce perché si è persa la collaborazione e il percorso comune. Forse per intenzioni totalitarie che non lasciavano spazio a “idee differenti”, ma sempre della città. Forse perché si dà sempre una lettura politica ai fatti. Forse perché non si è ancora perso il vizio di strumentalizzare il porto. Spesso chi parla non ha studiato abbastanza, perché quando si ha consapevolezza delle questioni in essere si trovano soluzioni possibili. Perché si insiste sulla sdemanializzazione e sul porto franco quando si può agire anche in altro modo? Certo non c’è spazio per chi vorrebbe un water-front su modelli estranei al nostro contesto e per chi pensa e si illude, ancora oggi, che basta togliere un cancello per trovare investitori.
Noi non abbiamo bisogno di lezioni, sappiamo bene come andare avanti a cominciare da normative speciali per il restauro dei magazzini, insediare attività compatibili con la portualità, il commercio, il turismo culturale e i giovani. Bisogna conoscere gli iter procedurali, saper intervenire appropriatamente e al momento giusto, bisogna ammettere i propri errori e riprendere il discorso su Porto Vecchio alla luce degli eventi attuali, per non perdere tempo come si è sempre fatto dagli anni Settanta in poi.
Ancora una volta si sbaglia l’approccio (troppo privatistico): non si inizia dai nuovi interventi, ma si comincia dal recupero dei magazzini storici, se un solo gruppo non ha la possibilità di intervenire sull’intero patrimonio si devono cercare sinergie con altri soggetti pronti a intervenire anche subito.
Perché sono state escluse tutte le dichiarazioni di interesse? Sono forse lasciate nel cassetto? Non si poteva accelerare il progetto su tutta l’area invece che concentrarsi su poche? Chi ha scelto e deciso quella lunga procedura terminata con l’assentimento a un unico concessionario nel novembre 2010? Perché a tre anni avanzati dall’approvazione definitiva della variante Barduzzi (2007)?
Prima di attaccare i vertici attuali dell’Autorità portuale bisogna conoscere il passato e i protagonisti del dibattito su Porto Vecchio che si è articolato in mille forme. Oggi si permettono tutti di intervenire e pontificare sul riuso. Possiamo dire che soltanto una decina di persone (professionisti e personaggi di cultura), l’associazione Italia Nostra, la stessa Autorità portuale e il ministero dei Beni culturali (con il Magazzino 26, l’hangar 1, e – nel gennaio 2004 – il polo museale) hanno dato il via al recupero (vedi anche l’iter della variante).
Noi tutti abbiamo le idee chiare, siamo sempre pronti e stiamo già lavorando per il bene del porto e della città. Direi che è ora di finirla con i proselitismi e del pronunciamento di verità che stanno da una parte sola e che scelgono le strade sbagliate. Portocittà avrebbe dovuto valorizzare i contributi locali e non farsi incantare dalle false promesse.
Antonella Caroli (ex segretario generale Autorità portuale di Trieste)
Il Piccolo 29/03/2013
L’edificio della Centrale idrodinamica di Trieste
L’edificio della Centrale idrodinamica può considerarsi, nell’ambito portuale di Trieste, un edificio speciale, coniugato secondo la sua particolare funzione: produzione di energia.
La forma architettonica si distanzia sia da quell’ordine costruttivo dei magazzini sia dall’impostazione volumetrica quasi prevaricando, con le sue linee essenziali, l’intero complesso portuale.
In quanto situata all’estremità dell’area portuale e costruita prima di altri magazzini, anche prima del magazzino 26, all’estremità dello stradone principale, lager strasse, dominava l’intera area e con il suo camino fumante dava i segnali di “ vita” del porto. Siamo in un periodo storico in cui, l’evoluzione quasi violenta e rivoluzionaria della tecnica, l’invenzione delle macchine a vapore e la necessità continua di produzione, portarono ad un consumo sempre maggiore di materie prime.
Si richiedevano sempre più macchine speciali anche per il lavoro portuale, come gru o mezzi di sollevamento, con nuovi metodi e tecnologie e per farle funzionare occorreva energia e quindi nuovi impianti per garantirne il funzionamento anche 24 ore su 24. L’innovazione tecnologica stava anche nel fatto di dover calcolare ed adattare le nuove costruzioni alle sollecitazioni e a spazi razionali interni ed esterni per le nuove e grandi macchine di produzione.
La Centrale idrodinamica del Porto di Trieste, per la sua ubicazione, le sue dimensioni e la sua disposizione presentava caratteristiche degli edifici industriali. Semplice, essenziale ma soprattutto funzionale, l’impianto costruttivo dell’epoca doveva permettere l’organizzazione dello spazio interno, la sistemazione delle macchine generatrici, la completa utilizzazione della forza prodotta senza compromettere non solo la stabilità e la conservazione dell’edificio ma anche favorirne la razionalità del lavoro senza creare pericolo per gli addetti.
Una fabbrica industriale dipendeva anche dal carattere provvisorio o definitivo, dallo scopo a cui doveva servire, dalle destinazione d’uso dei locali da destinare, come nel nostro caso alle macchine e alle caldaie e quindi dalle proprietà fisiche dell’ambiente stesso.
Il porto doveva dotarsi di un impianto autonomo di produzione di energia in grado di distribuirla su tutta l’area costruita e non, come ai montacarichi dei magazzini e alle gru di banchine.
All’epoca si giudicava l’efficienza di un porto dall’arredamento meccanico e dalle attrezzature elettromeccaniche ma bisogna anche trattenere i costi in modo che fosse conveniente produrre e trasformare energia in proprio. L’energia più conveniente era quella prodotta da una caduta d’acqua e il costo unitario variava con le perdite, con la modalità di trasmissione e di utilizzazione.
Si valutò quindi di utilizzare una forma di energia più comoda e quindi proveniente da una forza idraulica per evitare costose trasmissioni meccaniche e laboratori di notevoli spese di manutenzione.
L’energia prodotta doveva essere facilmente distribuita nei vari punti di utilizzazione del porto, ma anche ad un facile frazionamento per rendere possibile l’azionamento a gruppi del macchinario in modo da ridurre i costi. Si decise quindi di destinare una zona del porto, in posizione favorevole per la distribuzione, per la produzione di energia e si procedette alla costruzione di tre corpi di fabbrica, uniti tra loro dove trovassero sede le macchine generatrici, le caldaie e la sottostazione elettrica di riconversione.
L’edificio principale è diviso in tre parti principali che erano ordinati e declinati secondo le rispettive funzioni.
Nel primo corpo di fabbrica, a sinistra, si trova la stazione elettrica di riconversione, nel corpo centrale i locali delle caldaie, nel corpo simmetrico a timpano, sul lato destro, la sala macchine e le due torri degli accumulatori d’acqua.
La costruzione si adattò anche quando venne abbandonata la trasmissione mossa da macchine a vapore, per l’elettrificazione del 1936 e quindi a gruppi mossi dall’energia elettrica abolendo così motori singoli per singole apparecchiature o macchine.
Un programma di recupero e valorizzazione del Porto Vecchio di Trieste, recupero e valorizzazione che non poteva che iniziare dal cuore storico del porto, dal suo motore, da ciò che gli forniva l’energia e, si potrebbe dire, la vita.
L’obiettivo del restauro è la creazione di un polo didattico-museale. L’edificio in questione si colloca all’interno dell’area demaniale del Porto Vecchio di Trieste e costituisce parte del Demanio culturale (secondo l’art.53 del D.lg. 22 gennaio 2004 n° 42 e seguenti – Codice Beni Culturali).
Il manufatto era adibito ad ospitare i macchinari, le unità di controllo e le relative attrezzature manutentive necessarie alla produzione dell’energia idraulica che servivano all’azionamento delle gru e dei mezzi di sollevamento distribuiti nell’intero complesso del Porto Vecchio. Tali macchinari, risalenti al XIX secolo, in servizio sino alla seconda metà degli anni ’80, sono stati dismessi e attualmente versano in un buon stato di conservazione.
L’edificio, costruito verso la metà del ‘800, occupa in pianta un’area di forma rettangolare di circa 80m di lunghezza e 25m di larghezza, per una superficie totale di 2.000 m2.
Il materiale di costruzione dominante è la pietra arenaria per le murature perimetrali ed il laterizio pieno per i tamponamenti interni, mentre la copertura è caratterizzata da una capriata lignea con tiranti metallici.
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