Giornata contro la violenza sulle donne
Ogni tipo di violenza è il risultato del fatto che le persone inducono se stesse a credere che il loro dolore deriva dagli altri e che, di conseguenza, essi meritano di essere puniti.
Marshall Rosenberg
dal Corriere della Sera del 25 novembre 2021 (articolo in pdf)
Una donna qualsiasi, bella o brutta, giovane o vecchia, se rimaneva sola con un uomo perdeva il suo buon nome. Si comprometteva. Si presumeva infatti che l’uomo, bello o brutto, giovane o vecchio, avrebbe comunque provato a sedurla secondo le antiche regole del gioco sessuale. La volontà di lei non contava assolutamente nulla. Non era prevista una volontà femminile contro la bramosia maschile. Da qui la stretta parentela fra consenso alla semplice compagnia maschile da parte della donna e stupro.
Dacia Maraini, Bagheria, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli
Lo stupro non esiste. L’hanno detto in tanti; una folla di tutte le età e condizioni sociali, vecchi e giovani, ignoranti e colti, anzi più colti che ignoranti. Dicevano: se la donna non vuole, l’uomo non riesce a violarla. La violenza? È la donna che la cerca, altrimenti un uomo può pensare che ci sta, che è una porca, anzi una puttana.
Anche i latini lo dicevano. Non era il poeta Ovidio a dire: vis grata puellis? E non era il solo. Voltaire o, se preferite, il filosofo François-Marie Arouet, era solito raccontare come una volta una regina avesse «eluso l’accusa di una querelante: prese il fodero di una spada e, continuando a muoverlo, mostrò alla dama che non era possibile infilarvi dentro la spada».
Anche in Inghilterra la pensavano allo stesso modo. In un manuale di medicina nel 1868 era scritto che era «impossibile inguainare la spada in un fodero palpitante». Palpitante! Il termine rende bene l’idea.
L’esempio di Voltaire non rimase sulla carta; qualche avvocato scaltro, oltre che colto, lo utilizzò per difendere il suo assistito dall’accusa di violenza carnale. Leonardo Sciascia in un suo romanzo ricordò che un avvocato, per dimostrare che il suo assistito non aveva violentato la donna ma che avevano fatto l’amore con pieno soddisfacimento e consenso di entrambi, «ad uno dei carabinieri che decoravano l’aula aveva chiesto di sfoderare la sciabola, di affidargliene il fodero: e impugnando il carabiniere la sciabola e tenendone l’avvocato il fodero il carabiniere doveva riuscire a farla rientrare nel fodero che l’avvocato veniva lentamente, quasi impercettibilmente movendo». Il carabiniere, che pure era abituato a sfoderare e a rinfoderare la sciabola, non riuscì nell’intento e così il valente avvocato riuscì a far assolvere il suo difeso.
Io vorrei aggiungere una testimonianza personale. Tra i ricordi della mia gioventù ho quello del racconto di un avvocato che arrivò in tribunale a Vibo Valentia tenendo in una mano un filo per essere infilato nella cruna di un ago che aveva nell’altra mano. Parlava con fluente eloquio e con un significativo gesticolare. Con parole dotte e con un tono adatto alle circostanze poneva ai giudici il quesito: si può infilare il filo se la cruna non sta ferma? I giudici – tutti maschi! – erano imbarazzati, non erano avvezzi a usare ago e filo, e guardavano sconcertati l’avvocato che faceva notare la difficoltà che balzava subito ai loro occhi di infilare quel filo nella cruna che non era perfettamente immobile. Fuor di metafora: lo stupro, almeno quando questo si verifica tra un uomo e una donna, è difficilissimo se la donna non è consenziente.
Del resto, come affermavano in molti, basta tenere le gambe serrate, accoccolarsi o divincolarsi per aver risolto il problema.
Un intellettuale inglese, Gurney Williams, in uno scritto del 1913 si mostra sicuro che «il semplice accavallamento delle ginocchia impedisce assolutamente la penetrazione». Accavallare le gambe: ecco il segreto per non essere stuprata.
Prima ancora dello studioso inglese ne erano convinti i giudici del Tribunale di Monteleone, l’odierna Vibo Valentia, che avevano già mandato assolto l’imputato. La Corte di appello di Catanzaro nel 1905 confermò la sentenza con questa motivazione: «per quanto debole la donna, tenendo le gambe serrate riesce molto difficile all’uomo di riaprirle».
Queste argomentazioni mettevano radicalmente in discussione le affermazioni delle donne di aver subito violenza. Il chiaro messaggio inviato era la negazione stessa dello stupro, la sua pratica impossibilità a realizzarsi… a meno che la donna non ne fosse consenziente.
La donna s’è dovuta scontrare prima con la brutalità e la violenza di un uomo – e a volte più d’uno – che ha violato il suo corpo o ha tentato di farlo, e poi con una cultura che negava in radice quello ch’era avvenuto dichiarando che fosse impossibile che fosse avvenuto.
Enzo Ciconte, Storia dello stupro e di donne ribelli, Rubbettino (Prologo)
C’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui la violenza verso le donne, soprattutto fra le mura domestiche, era quasi universalmente accettata: tutti sapevano che dietro quella porta c’era un marito che picchiava, violentava e uccideva la moglie. E tutti tacevano. Perché i panni sporchi si lavano in famiglia, si diceva, perché non sono affari nostri, oppure, peggio, perché era quello il modo per “tenere a bada” la moglie e persino mantenere in vita la famiglia. Poi arrivò, almeno così sembrava, l’emancipazione, la consapevolezza dell’ingiustizia subìta, la forza della reazione, e tutto faceva presagire la fine, o quantomeno il ridimensionamento, di quel tipo di violenza. Ci sbagliavamo. Nonostante la modernità, le leggi ad hoc e l’inasprimento delle pene, un certo tipo di violenza, dell’uomo verso la donna ma anche, seppur in misura molto minore, della donna verso l’uomo, da qualche parte ha ritrovato vigore. Non si contano nemmeno più i casi di violenza “di genere”. Feroci, brutali, cinici. È difficile individuarne la causa, che non può certo essere unica, ma qualcosa, nella società nel nuovo secolo, si è spezzato. Perché se è vero che nella società patriarcale italiana la violenza sulla donna era in qualche modo accettata, la vittima diventava colpevole, non c’erano “protezioni” a cui affidarsi, è altrettanto vero che oggi, nel momento in cui tutto ciò è venuto meno, la donna rimane vittima prediletta. È come se, nonostante gli evidenti progressi, legali e culturali, ci fosse in noi qualcosa di ancestrale, e dunque di ineliminabile, irredimibile, capace di condurci sempre sulla stessa strada, quella del “senso del possesso”, della donna che “è nostra” e in quanto “nostra” possiamo farci ciò che vogliamo. Al di là delle leggi, al di là dell’emancipazione, al di là delle apparenti conquiste della modernità. Conosciamo donne che rappresentano esempi di coraggio, donne “sfregiate” dall’uomo che non voleva lasciarle andare via e che pure hanno avuto il fegato di denunciare, di mostrare ciò che il loro uomo aveva provocato al loro corpo, di dichiarare il loro “mai più”. Eppure si ha la sensazione, se non la certezza, che nonostante questi esempi, nonostante la via indicata da queste donne “violentate”, nel fisico e nella mente, migliaia di altre donne non abbiano la forza, né la possibilità, né le “protezioni” necessarie per venire fuori dal loro inferno, casalingo e non, per denunciare e ricominciare a vivere. Quante ancora non ne conosciamo, e non conosceremo mai, che sono costrette ad “accettare” il loro terribile destino fino alla tomba? Quante sono ancora convinte che “sopportare” sia in fondo un bene per se stesse, per i loro figli, e persino un modo per “proteggere” la famiglia dal giudizio altrui? Quante vorrebbero venire fuori ma sono avvinghiate alla paura, possedute dal timore di essere lasciate sole dopo un primo cenno di solidarietà? È per loro, dunque, che bisogna ancora combattere, e chissà per quanti decenni o secoli ancora. Ed è per loro che libri come questi andrebbero diffusi anche nelle scuole, per dire a chi, fra non molti anni, sarà al posto di comando, che noi pensavamo di aver fatto tanto, ma che in realtà era ancora troppo poco, e che adesso tocca a loro “liberare” quelle donne, così da farci un giorno dimenticare ciò che scriveva Alda Merini: “Siamo state amate e odiate, adorate e rinnegate, baciate e uccise, solo perché donne”.
E però c’è anche l’altra faccia della medaglia: quella dell’ipocrisia, dei veri numeri della “tragedia”, della moda e del pensiero unico che per risolvere il problema arriva ad eccessi e paradossi come ad invocare l’abolizione delle sfilate di bellezza o delle pubblicità con le donne/mamme in cucina. È l’ipocrisia di credere e di far credere che questo sia un fenomeno soprattutto italiano quand’invece, in paesi all’avanguardia sulla parità dei sessi (vedi la Finlandia) il femminicidio uccide tre volte di più. Già perché i famosi “dati Istat” e le classifiche ufficiali in tema certificano con la ceralacca non solo che il femminicidio non è una nuova emergenza sociale ma che l’Italia è il Paese occidentale dove l’uomo ammazza meno la compagna di turno o di una vita. Dunque ben vengano libri bellissimi come questo, leggi sacrosante come quella sullo stalking, spot e richiami prima e dopo la Festa della Donna. Ma come ha fatto onestamente Elisa raccontando anche la storia della donna “mostro” (Sara ossessionata da Giuseppe), la violenza è violenza, punto, indipendentemente da chi è vittima o carnefice.
Diffidiamo dunque di chi parla a vanvera e tifa nei talk show di «femminicidio» quale aggravante dell’omicidio. È incostituzionale ma fa fico e va tanto di moda parlarne. Perché come diceva quel satanasso di Marilyn Manson “I tempi non sono diventati più violenti. Sono solo diventati più televisivi”.
Gian Marco Chiocci, Prefazione al libro di Elisa Caponetti, Vittime di violenza: Storie di ordinaria quotidianità, Ed. Albatros
Forse c’è stato un tempo in cui uomini e donne hanno vissuto in armonia. Forse quando gli esseri umani veneravano la dea madre come simbolo di fertilità, di continuità della vita, questa devozione costituiva la trasposizione sul piano ideale e rituale del rispetto esistente nelle relazioni tra i sessi: il linguaggio della dea (Gimbutas 1990). Purtroppo lo ignoriamo: di quell’epoca di caccia e raccolta restano pitture rupestri, incisioni e statuette, troppo poco per non dover ricorrere a mere supposizioni, a fantasie molto più rivelatrici del mondo culturale di chi le propone che della vita sociale di quell’epoca preistorica. Nel nostro tempo invece i luoghi in cui le regole sociali prescrivono il rispetto e la reciproca stima tra il sesso maschile e quello femminile sono scarsi, limitati, circoscritti. Le pessimiste dicono: inesistenti, o comunque in via di estinzione, come piccole comunità delle foreste dell’India o degli altipiani della Nuova Guinea. Nella maggior parte delle culture, a chi appartiene al gruppo degli uomini si insegna la superiorità su chi appartiene al gruppo delle donne e su quei maschi che assumono sembianze o comportamenti etichettati come «femminili». Viceversa, a chi appartiene al sesso femminile si insegnano sottomissione, docilità e regole molteplici, poi interiorizzate, che impongono di controllarsi, di modificarsi per apparire desiderabili e innocue, e soprattutto di badare alla propria castità. Mentre al maschio tutto è dovuto, la femmina non ha diritto a nulla.
Questa rigida separazione tra i sessi con la prescrizione della subordinazione del sesso femminile a quello maschile è la radice della violenza che vogliamo chiamare ginocida. È la violenza rivolta contro il femminile allo scopo di affermare la superiorità maschile, è lo stupro che collega al piacere sessuale un’aggressione intima contro la vittima che viene «posseduta», è l’annichilimento della volontà della partner nei maltrattamenti familiari, è l’omicidio per gelosia, per «passione», in cui la pretesa di amare la vittima nasconde la manifestazione suprema del possesso: la distruzione. Tale violenza è presente, oltre che negli atti individuali di aggressione, anche nelle norme sociali che giustificano questi atti, ad esempio dandone la colpa alla «scarsa moralità» della vittima, punendola per non aver adempiuto al ruolo femminile, e in quelle che prescrivono violenze espressamente mirate al sesso femminile, come l’uccisione per adulterio, le mutilazioni genitali (che hanno proprio lo scopo di costruire la versione socialmente accettata del sesso femminile), la sistematica denutrizione e discriminazione delle figlie femmine. Ed è il risultato di un’educazione maschile che esalta l’aggressività, di un ideale di virilità violenta in cui vengono cresciuti i maschi. La violenza ginocida è una categoria che comprende anche la violenza che i maschi scatenano contro quegli uomini, adolescenti, bambini che non adempiono il loro ruolo maschile e vengono giudicati deboli, perdenti, simili alle donne, ovvero effeminati – forse ancora più degradati delle donne stesse, poiché hanno perso la loro posizione dominante mentre le femmine, per definizione, non possono raggiungerla.
Le parole «ginocidio», «femicidio», «femminicidio» sono state coniate dal femminismo negli anni Settanta – Jane Caputi, Mary Daly (2005), Andrea Dworkin, Antoinette Fouque (1989), Diana Russell e molte altre – per indicare non solo gli assassinii di donne ma anche tutta la violenza che si rivolge contro l’essere donna, contro il femminile, a causa del disprezzo sociale e della brama di controllo sui corpi femminili da parte del sistema di potere maschile, il patriarcato. E dunque gli esecutori di questa violenza, che certo può spingersi anche fino all’omicidio, possono essere uomini ma anche donne (un esempio sono le anziane che eseguono le mutilazioni genitali sulle bambine).
La creazione di una particolare categoria di «violenza ginocida» è importante perché le statistiche mostrano una prevalenza di vittime maschili di omicidio e di aggressioni: se ne dovrebbe concludere che sia il sesso femminile a godere di vantaggi e protezione. Ma questa «protezione» del genere femminile è semplicemente la limitazione del movimento delle femmine negli spazi pubblici da parte di norme sociali oppressive o semplicemente della paura degli uomini.
Infatti, così come la violenza sugli uomini viene esercitata in massima parte da altri uomini, anche le donne vittime di violenza lo sono per mano maschile. Gli stessi «protettori» delle donne, i loro compagni, familiari e amici maschi, sono coloro che perpetrano la maggioranza delle violenze ginocide. Le femmine vengono rinchiuse nelle case per proteggerle (o per proteggerne «la virtù»), ma per loro è la casa il luogo più pericoloso.
È importante sottolineare il fatto che analizzeremo ruoli sociali, cioè norme generali prescritte nelle relazioni tra i sessi, e che il cambiamento è in atto: nel corso della storia la posizione delle donne è più volte mutata, le norme e le sanzioni relative alla trasgressione sono in continuo mutamento aprendo o chiudendo spazi di libertà.
Nel primo capitolo presenteremo il dibattito tra i due schieramenti politico-intellettuali contrapposti. Se alcuni ritengono che l’approfondimento dei legami economici e culturali tra le diverse aree del mondo, la globalizzazione degli ultimi 20-30 anni, abbia portato benefici alle donne, altri sono invece convinti che essa abbia peggiorato la situazione in cui vivono gran parte delle donne del mondo. Il tentativo di suffragare l’una o l’altra ipotesi attraverso prove empiriche sarà il filo rosso che attraversa questo libro.
Ancora oggi esistono, in alcune parti del mondo poco popolate e relativamente isolate, gruppi umani che mantengono modi di vita tradizionali che discendono dalle società senza scrittura e nei quali non esiste violenza ginocida: ce ne occuperemo in dettaglio nel secondo capitolo. Proprio questa variabilità nella posizione sociale delle donne, e nelle circostanze in cui la violenza ginocida è perpetrata, permette di individuare in quali situazioni la violenza diminuisce, quali fattori possono tenerla a freno. Questo sarà il tema dei quattro capitoli che seguono, su stupri, maltrattamenti, omicidi e violenza culturale, istituzionale ed economica, in cui esporremo le ricerche sull’incidenza e sulle motivazioni di ciascuno di questi misfatti.
Dopo aver parlato di società senza violenza e delle forme della violenza ginocida con un approccio tematico, nella seconda parte del libro passeremo a un approccio geografico e presenteremo alcuni indicatori tratti da ricerche internazionali comparate, per poi approfondire l’indagine su alcune aree del mondo: l’Italia, la Scandinavia, le Americhe, l’Europa dell’Est, il mondo musulmano, cercando i dati sulla violenza contro le donne (un’approssimazione empirica del concetto analitico di violenza ginocida) per formulare un giudizio sul miglioramento o il peggioramento della condizione delle donne nella globalizzazione.
Daniela Danna, Ginocidio. La violenza contro le donne nell’era globale (Introduzione), Ed. Elèuthera