Decido io se, come e quando! (slogan no-vax)
Alcune riflessioni in ordine sparso sui vaccini: storia, benefici, paure, cattiva informazione, false credenze, approcci comunicativi.
Buona lettura!
Il 21 ottobre scorso ho ricevuto la terza dose del vaccino Pfizer anti-COVID 19, la cosiddetta dose “booster”. La mia seconda vaccinazione risaliva al 26 gennaio di quest’anno: dato che lavoro ancora in campo medico come libero-professionista avevo potuto accedere molto presto alla vaccinazione.
Come potete immaginare, ricevo quotidianamente comunicazioni di argomento sanitario, che non sempre trovo il tempo di leggere; il 2 dicembre ho ricevuto da Univadis (Servizio medico-scientifico offerto alla Classe Medica) questa e-mail, l’ho letta e l’ho trovata così interessante che ho pensato di condividerla con tutti i Soci!”
Cristiana Vidali
Vita di specializzando – La mia terza dose di Stefano Orsenigo – specializzando in anestesia e rianimazione
Oggi ho fatto la mia terza dose di vaccino.
Mi sono guardato attorno, al centro vaccinale. Eravamo solo operatori sanitari di vario genere, tutti con lo stesso sguardo: l’aria di chi fa qualcosa un po’ perché si deve, poca voglia di perdere quel tempo a stare lì. Ma che si fa ed è importante fare.
La verità è che dietro quello sguardo c’è la speranza di non ritrovarsi di nuovo nella stessa situazione delle diverse ondate, ma anche una certa sacralità.
Sarà che io che sono un inguaribile romantico ma, oggi, mi sono sentito particolarmente orgoglioso degli sviluppi della scienza medica. Mi è quasi parso di scorgere questo sentimento negli occhi dei miei colleghi, nascosto tra una noncuranza di facciata. La sensazione è quella di una staffetta, iniziata tanto tempo fa.
Il primo a prendere in mano il testimone fu Edward Jenner, che nel giugno del 1801 pubblicò il suo paper “On the Origin of the Vaccine Inoculation”. È l’inizio di una delle storie più fortunate dell’umanità.
In questo articolo, Jenner dimostrava che il vaiolo può essere prevenuto inoculando la forma contratta dalle mucche agli essere umani. Chiama questo processo “vaccinazione” proprio dalla parola vacca.
Ma oltre a essere un genio (o forse come tutti i geni?) Jenner era anche un sognatore: “Spero che un giorno la pratica della vaccinazione sarà diffusa a tutto il mondo, e quando verrà quel momento, non esisterà più il vaiolo”. Un pazzo.
Sono tempi difficili e la diffusione di certe idee non è certo facile. Si inizia a effettuare qualche vaccinazione contro il vaiolo, ma siamo largamente lontani dall’utopia di Jenner. Verso la fine del diciannovesimo secolo iniziano ad apparire nuovi vaccini. Iniziamo a essere in grado di prevenire il colera, la rabbia, il tetano.
A partire dal 1900 inizia la grande scalata: seguono la tubercolosi, la difterite, la scarlattina, la pertosse, la febbre gialla, il tifo, l’influenza.
A circa metà del secolo scorso arriviamo a un altro grande tassello di questa storia: la poliomielite. In quegli anni la polio paralizza o addirittura porta al decesso mezzo milione di persone ogni anno. La ricerca è in atto ormai da più di venti anni, ma nessuno ha ancora fatto dei passi avanti. Fino al 12 aprile del 1955.
Quel giorno, le radio di tutto il mondo erano sintetizzate su “La Voce dell’America”. Perfino nei negozi le filodiffusioni facevano sentire quel canale. Alcune aule di tribunali fermarono i processi in atto per sentire l’annuncio. “Il vaccino è dichiarato sicuro ed efficace”.
La gente uscì spontaneamente fuori per le strade a festeggiare. Lo storico William O’ Neille riferisce che tutti, ovunque, suonarono i clacson, suonarono le campane, suonarono i fischietti delle fabbriche; sorrisero agli sconosciuti, fecero brindisi, si abbracciarono.
Fu un momento di grande felicità per tutto il mondo.
Né il vaccino di Salk, né la successiva versione (a somministrazione orale) allestita da Sabin, furono mai brevettate. Dall’America arrivarono anche in URSS. Fu il loro regalo ai bambini di tutto il mondo.
Ecco, è in quegli anni che la nostra storia tocca il suo punto più alto: il momento in cui l’umanità sceglie la sua sfida più grande (beh, almeno in campo medico!).
Non erano solo gli anni in cui i vaccini sconfiggevano malattie pericolosissime. Erano anche i primi anni della corsa allo Spazio, e continuo a non riuscire a togliermi dalla testa che l’entusiasmo che ci ha portato fuori dall’atmosfera terrestre sia stato lo stesso che ha portato il WHO nel 1959 a dichiarare che avrebbero realizzato un’utopia. Avrebbero realizzato il sogno di Jenner. L’umanità avrebbe eliminato per sempre una delle piaghe che l’aveva afflitta. Avrebbe sconfitto il vaiolo.
Passarono 18 anni. Nel 1977 abbiamo finalmente ringraziato il grande Jenner per quello che ha fatto. Il vaiolo non esiste più.
Nessun procedimento medico ha salvato tante vite quante la vaccinazione.
Contro il coronavirus non solo abbiamo trovato un vaccino, ma per la prima volta nella storia dell’umanità lo abbiamo trovato già alle fasi iniziali della pandemia stessa, in tempi brevissimi!
Il progresso tecnologico ha fatto dei salti da giganti a una velocità impensabile in quel lontano giorno del giugno di inizio ‘800.
Continuo a pensarci e a pensare a quanto sia un peccato non apprezzare tutta la strada fatta dall’umanità in questo campo.
La lezione dimenticata della Polio di Giuseppe Remuzzi – Corriere della Sera del 29 novembre 2021
La scoperta del vaccino negli anni 50 fu accolta dall’entusiasmo di tutti. Soprattutto dei genitori.
«Perché poliomielite sì e Covid-19 no». Se lo chiede in questi giorni, in un bellissimo articolo pubblicato sul Washington Post, Ashish Jha che è rettore della Brown University School of Public Health. Il virus della poliomielite circolava in forma endemica da millenni. Le prime epidemie importanti si sono registrate in Europa fin dagli inizi del 1900, subito dopo il virus ha fatto la sua comparsa negli Stati Uniti e ha raggiunto il suo picco negli anni ’40 e ’50 in quel periodo la malattia paralizzava o uccideva più di mezzo milione di persone nel mondo ogni anno.
La popolazione era in preda al panico i genitori temevano per i loro bambini, il virus immobilizzava i muscoli e c’era l’incubo del «polmone d’acciaio», una macchina dentro la quale bambini, e qualche volta adulti, venivano rinchiusi fuori solo capo e collo, era la macchina che respirava per loro e avrebbe continuato a farlo per il resto della vita.
Ma per il virus della poliomielite, come per quello del Covid, non è che tutti quelli che si infettavano dovessero per forza ammalarsi, i tre quarti non avevano sintomi e la gran parte degli altri aveva disturbi trascurabili, simili all’influenza, che guarivano da soli nel giro di pochi giorni. Solo lo 0,1 per cento di quelli che si infettavano sviluppava complicazioni.
Adesso, a tanti anni di distanza, a quali conclusioni ci porta il confronto tra la poliomielite e il Covid-19
I bambini sono meno suscettibili degli adulti al coronavirus, questo lo sanno tutti ed è la ragione per cui non li si vorrebbe vaccinare, ma a pensarci bene era un po’ così anche per la polio è vero che colpiva specialmente i piccoli, ma si andava incontro a un decorso più grave quando la malattia si manifestava in età adulta. In ogni caso, nonostante solo una piccola parte di coloro che contraevano l’infezione si ammalasse gravemente di polio o morisse — la più grave epidemia di polio ha colpito gli Stati Uniti nel 1952 causando oltre 21 mila casi e tremila vittime — tutti accolsero con entusiasmo il vaccino messo a punto da Jonas Salk.
Fu annunciato ufficialmente al mondo il 12 aprile 1955. Le famiglie ricevettero un vademecum «Genitori, questo messaggio riguarda voi e i vostri bambini». Tutti leggevano quelle istruzioni e le seguivano. Il vaccino fu reso obbligatorio e lo è rimasto fino a oggi. Con una differenza fondamentale quello di Salk era un virus inattivato, il processo per rendere innocuo il virus non riesce sempre alla perfezione, per cui capitava, anche se raramente, che fosse proprio il vaccino a causare la polio. «Non potrebbe succedere la stessa cosa per il vaccino contro il Covid-19», si chiedono oggi molti genitori.
La risposta è no, non può proprio succedere il vaccino di oggi non è fatto con un virus, che per quanto inattivato è sempre un virus intero; con il vaccino contro il Covid-19 il processo è completamente diverso, per cui è assolutamente impossibile che chi si immunizza contragga la malattia. Non solo i vaccini contro il Covid-19 — infinitamente più affidabili di quello di Salk contro la polio — sono già stati somministrati a più di quattro miliardi di persone nel mondo (tra cui decine di milioni di bambini; in tutto oltre 7,6 miliardi di dosi) e risultano essere i più efficaci e anche i più sicuri della storia della medicina.
Negli anni delle epidemie di polio più severe non c’era la capacità di fare screening tra la popolazione, si testava solo chi aveva già i sintomi della malattia e stava sviluppando una forma severa dell’infezione. Un po’ come se oggi si dovesse aspettare a fare il tampone ai nostri bambini quando il Covid li ha già costretti a un ricovero in ospedale.
La polio alla fine non c’è più, sarà così anche per il Covid-19 Penso proprio di no. Questo virus è troppo contagioso per essere vinto con il solo vaccino, sapremo tenerlo sotto controllo, causerà forme più lievi, ma starà con noi per un bel po’. A patto che si vaccinino i bambini, se no potrebbero essere proprio loro a essere più colpiti dal virus — e sta già succedendo — e a sviluppare forme più gravi di quelle che abbiamo visto finora.
La vittima più illustre della polio fu il Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt a 39 anni fu colpito da una severa forma della malattia, così prima lanciò una fondazione e poi una vera e propria campagna per debellare la polio con la cosiddetta «March of Dimes» si chiedeva ai cittadini di mandare monetine alla Casa Bianca per raccogliere fondi destinati a sconfiggere la paralisi infantile.
Quando arrivò il vaccino di Salk, il mondo intero tirò un sospiro di sollievo. «Ma cosa sarebbe successo — chiede il dottor Ashish Jha — se negli anni ‘50 ci fossero stati movimenti contrari al vaccino Avremmo avuto lo stesso livello di copertura contro la polio Ci avrebbero detto che la maggior parte dei bambini non rischiavano niente e che i più erano asintomatici E che quelli che morivano erano di fatto pochissimi». Vacciniamoli i bambini, contro Sars-CoV-2, oggi come abbiamo fatto con la polio.
“Alcuni strumenti per un’efficace strategia comunicativa sulle resistenze antivaccinali” tratto dal libro di Andrea Grignolio Chi ha paura dei vaccini? Codice Edizioni, 2016
…… Innanzitutto si è compreso che, in maniera controintuitiva, è soprattutto la porzione più istruita e benestante della popolazione a rifiutare le vaccinazioni. Le ragioni, come ampiamente sottolineato, sono dovute al fatto che si tratta di quella fascia che più si informa sulle possibili reazioni avverse dei vaccini, usa spesso il web e i social network come strumento di approfondimento, e dunque è esposta a un sovraccarico informativo basato su nozioni false, contraddittorie e legate al rischio. Un contesto che nel processo decisionale e nella valutazione delle scelte sanitarie induce a rifiutare il rischio, la cui errata sopravvalutazione è basata su dati statisticamente irrilevanti – mentre le informazioni relative ai bassi rischi e ai benefici vengono sottostimate. Inoltre, questa fetta di popolazione è spesso orientata, per status culturale ed economico, verso un sano approccio salutista, che però è oggi dominato da una fallace ideologia naturista (in genere caratterizzata dal nutrizionismo biologico e dall’uso di trattamenti omeopatici o delle “medicine alternative”) che guarda alle vaccinazioni con sospetto o avversione. Si instaura, così, un sistema di credenze costantemente rinforzate da meccanismi cognitivi che regolano la condivisione di quei valori politico-culturali che sovraintendono le dinamiche tribali e l’appartenenza a un gruppo sociale elitario a cui si desidera (o si ritiene di) appartenere. A ciò si deve aggiungere il crescente regime di fecondità bassa e tardiva che caratterizza le società più avanzate del mondo occidentale. I genitori tardivi sono infatti più esposti al rischio di malattie del nascituro, all’incertezza dell’esito del parto e al pericolo di non avere altre chance riproduttive, e vivono i primi anni di cura della prole in una fase psichica, professionale ed esistenziale tendenzialmente stressante e insoddisfacente: un contesto globale che favorisce le distorsioni percettive nella valutazione dei rischi in merito alle scelte medico-sanitarie a cui sottoporre i propri figli, e che induce i genitori a ridurre o evitare le situazioni ansiogene nelle comunicazioni con gli operatori sanitari. A queste ragioni vanno aggiunti cambiamenti sociali radicali, come la diffusione della disinformazione via web e un indebolimento dell’autorevolezza del medico dovuto a una malintesa interpretazione dell’autonomia del paziente. Le ricerche che hanno tenuto conto di queste nuove evidenze scientifiche e culturali hanno realizzato esperimenti interessanti, che offrono spunti utili su come meglio strutturare la comunicazione pubblica al fine di intercettare e orientare gli indecisi, e persino gli oppositori radicali, verso scelte razionali riguardo ai vaccini.
Dato che la teoria del prospetto dimostra la tendenza umana ad accettare il rischio in un contesto di possibili perdite, in contrasto con l’avversione al rischio in un contesto di possibili guadagni, e dato che per una parte della popolazione i vaccini sono percepiti come rischiosi, è opportuno promuovere la vaccinazione spiegando cosa potrebbe essere perso se tale rischio non venisse assunto, anziché spiegare cosa potremmo guadagnarci. In altri termini, nella comunicazione sui vaccini è molto più importante enfatizzare la protezione persa nei confronti di malattie potenzialmente letali in caso di rifiuto, veicolando messaggi e storie che spieghino gli alti rischi, piuttosto che insistere sulla loro efficacia e sicurezza. Ai genitori esitanti, quindi, occorre ricordare che vaccinare il loro bambino con, poniamo, il trivalente MPR, lo proteggerà contro queste tre specifiche malattie, conferendogli una protezione a vita che renderà i genitori stessi meno ansiosi e più sicuri (Abhyankar et al., 2008; Ball et al., 1998).
Sembra essere inoltre particolarmente inefficace l’appello ai generici benefici sociali connessi alla vaccinazione, come per esempio l’importanza della copertura di gregge: lo strumento più efficace è risultato infatti essere la comunicazione ai genitori dei rischi di malattia e i vantaggi della vaccinazione riferiti al loro specifico figlio, puntando dunque sulla sicurezza e i valori familiari, e sull’istinto di protezione della propria prole. Una comunicazione, quindi, il più possibile personalizzata, nominale, per quanto riguarda i rischi/benefici dei singoli figli e gli effetti delle singole malattie (Hendrix et al., 2014).
Infine, negli ultimi mesi sono stati condotti due importanti esperimenti che suggeriscono ulteriori elementi chiave di un’efficace comunicazione sulla vaccinazione, specie con quella frangia di genitori che la rifiuta in modo radicale. Il primo esperimento, mirato a valutare l’efficacia dei messaggi per ridurre le percezioni errate, e incrementare la diffusione del vaccino trivalente MPR, è stato pubblicato nel 2014 sulla nota rivista “Pediatrics”. 1759 genitori statunitensi e maggiorenni con figli sotto i diciassette anni sono stati intervistati e sottoposti a quattro tipi differenti di informazioni: una incentrata sull’assenza di prove della relazione tra trivalente e autismo; una che faceva uso di testi in cui si spiegavano i rischi delle tre malattie prevenibili con il trivalente; una che si serviva di immagini di bambini affetti dalle tre malattie; e una che utilizzava un racconto drammatico redatto da una madre che raccontava la storia del figlio ridotto in fin di vita dal morbillo. Informazioni che avrebbero dovuto rivelarsi efficaci, contemplando alcune strategie comunicative suggerite dalle conoscenze neuroscientifiche e psicologiche fin qui discusse: enfasi sui rischi della perdita di salute, e uso di storie e immagini personalizzate ed emotivamente coinvolgenti. Eppure nessuna di tali informazioni ha influito in maniera positiva sulla decisione di vaccinare o meno i propri figli. Sorprendentemente, gli autori hanno sottolineato che nonostante le comunicazioni veicolate nell’esperimento fossero riuscite a convincere alcuni genitori del fatto che il trivalente non causi l’autismo, essi non hanno diminuito la loro opposizione ai vaccini. Inoltre, la frangia più avversa, dopo l’esperimento, ha addirittura mostrato un rifiuto maggiore. Gli autori hanno concluso sostenendo che i tentativi di «correggere le idee false e sbagliate sui vaccini possono essere particolarmente controproducenti» (Nyhan et al., 2014).
Ciò che è sfuggito agli autori dello studio è stata la forza del bias di conferma e del bias del ritorno di fiamma, ovvero quell’inefficacia delle informazioni correttive che è (oltretutto) in grado di rendere i genitori impermeabili a qualsiasi ragionamento e di vanificare anche le migliori pratiche comunicative.
Muovendo da tali presupposti, nel 2015 è stato condotto un ulteriore esperimento, questa volta pubblicato su “PNAS”, una delle più autorevoli riviste al mondo, in cui gli autori hanno sottoposto una serie di informazioni a un campione di 811 individui …………. i partecipanti sono stati suddivisi a caso in tre gruppi differenti. A un gruppo è stato chiesto di leggere le informazioni sui rischi di morbillo, parotite e rosolia, comunicate in tre modi differenti: il racconto di una madre sull’esperienza di avere il proprio bambino di dieci mesi affetto da una forma di morbillo quasi letale; tre fotografie di tre bambini affetti da forme gravi di morbillo, parotite e rosolia; tre semplici avvertimenti su quanto sia importante vaccinare i propri bambini. Un altro gruppo è stato invece sottoposto alla lettura di una serie di informazioni mirate a correggere l’idea che il vaccino provochi l’autismo, mostrando anche alcuni estratti, comprensibili e convincenti, di tre differenti studi scientifici che provavano l’assenza di ogni relazione. A un terzo gruppo di controllo sono state mostrate delle vignette. Ai partecipanti è stato infine chiesto di compilare di nuovo la propria attitudine verso la vaccinazione, seguita da un altro test di distrazione. Infine, sono stati tutti invitati a rispondere ad alcune domande per valutare la passata attitudine nei confronti delle vaccinazioni, e le loro future intenzioni sulla possibilità di vaccinare i propri figli.
L’esperimento ha rivelato che il gruppo sottoposto alle informazioni correttive sul rapporto vaccini e autismo non aveva cambiato la propria attitudine, confermando l’esperimento di “Pediatrics”. Gli autori di questo esperimento, però, ne hanno affrontato nel dettaglio le ragioni (eluse in quello precedente), focalizzando la propria attenzione sugli effetti dei bias di conferma e del ritorno di fiamma, capaci di indurre una chiusura cognitiva e di rinforzare le idee di partenza dei partecipanti antivaccinisti. Il dato interessante è che tutti gli altri partecipanti – compresi gli antivaccinisti radicali –, non contraddetti o sfidati nelle loro credenze di partenza, ma solo informati dei rischi per loro e i propri figli, hanno migliorato in modo significativo le proprie attitudini di partenza verso le vaccinazioni. Gli autori, in sostanza, non hanno tentato di scalfire le credenze errate, bensì deciso di sostituire i (falsi) timori verso i vaccini con altri (veri) verso le malattie, che comportano rischi maggiori (Horne et al., 2015). Tali strategie dovrebbero essere prese seriamente in considerazione dalle istituzioni preposte alla promozione della salute pubblica.
Altri suggerimenti utili per gestire le richieste dei genitori contrari alle vaccinazioni vengono dalla “teoria del nugde”, dall’esempio della politica sanitaria australiana e di alcuni stati nordamericani, e dalla soluzione del governo britannico di fine Ottocento emersa dalla storia dei movimenti antivaccinali. Nelle democrazie avanzate è possibile concedere ai cittadini un grado di libertà tale da permettere perfino di non vaccinare i propri figli; ma come in ogni sana democrazia, ad ogni diritto corrisponde un dovere, e ad ogni libertà una responsabilità. Per i genitori contrari si potrebbe quindi prevedere una procedura burocratica articolata (che avrebbe, tra l’altro, la funzione di selezionare le convinzioni radicali da quelle superficiali e passeggere) in cui essi: leggano i dati, i racconti e le immagini relativi ai rischi delle malattie infettive prevenibili; dichiarino di aver letto e capito le ricerche, e di essere quindi coscienti di sottoporre il proprio figlio a tali rischi; si impegnino nei periodi delle epidemie stagionali a ritirare i figli da scuola; dichiarino di non opporsi alla convocazione del loro figlio da parte dei servizi sanitari per comunicargli, una volta raggiunta la maggiore età, i rischi di una mancata vaccinazione; e infine sottoscrivano un’assicurazione sanitaria atta a compensare i possibili danni causati da un eventuale scoppio epidemico in cui sia coinvolto il proprio figlio privo di copertura vaccinale. Accanto a tali restrizioni si possono prevedere degli incentivi alle vaccinazioni che, per esempio, offrano ai genitori in regola con il calendario vaccinale sgravi fiscali o agevolazioni sanitarie.
Ma questi esperimenti forse suggeriscono qualcosa che va al di là della questione legata ai vaccini. L’atteso dialogo tra cittadinanza attiva e istituzioni, previsto dai meccanismi di democrazia partecipativa caratteristico della società della conoscenza, rimarrà un miraggio populista se non sapremo formare le nuove generazioni, e la classe politica stessa, a prendere decisioni distinguendo tra fatti accertati, scelte irrazionali e controinformazione diffusa dal web. Il calo delle vaccinazioni e il caso Stamina sono solo due dei tanti esempi che ci ricordano, in maniera drammatica, i rischi di tenuta democratica e sanitaria del nostro paese. Anziché arginare credenze popolari errate e frodi istituzionali, la nostra democrazia dovrebbe guardare all’implementazione delle innovazioni tecnologiche, allo sviluppo delle competenze e al rilancio della competizione scientifica italiana in ambito internazionale, non dimenticando le sfide epocali che ci attendono nei prossimi tre decenni. Movimenti politici nostrani nati di recente, invece, formano non di rado la propria cultura sui siti cospirazionisti, e le attuali giovani generazioni navigano su internet immerse in un oceano di dati in cui le informazioni vere si confondono con quelle artefatte.
Compito della cittadinanza, della scuola, della divulgazione e della buona politica sarà quello di reagire a questa esiziale corrente, e sviluppare strategie condivise per distinguere la democrazia dalle teorie demagogiche della cospirazione complottista, i fatti dagli pseudo-fatti, la vita dalla fiction, la realtà da photoshop.