All’Alba dell’Universo
Il Prof. Giorgio Sedmak, già ordinario di Tecnologie Astronomiche all’Università di Trieste, è stato nuovamente con noi con una relazione dal titolo “All’Alba dell’Universo”. Grazie ai recenti telescopi siamo in grado di osservare galassie la cui luce ha viaggiato per quasi tutta l’età dell’Universo prima di giungere a noi.
All’Alba dell’Universo
La conoscenza dell’Universo in cui viviamo aumenta sempre di più con il progredire della scienza e della tecnologia moderne, in particolare l’astronomia, l’astrofisica, l’ottica e l’informatica. Lo sviluppo dagli anni 2000 dei megatelescopi e radiotelescopi operanti a terra e dei telescopi nello spazio ha permesso di osservare oggetti astronomici sempre più deboli e lontani, estendendo la nostra visione fino all’alba dell’Universo, quando la prima luce si diffuse nel cosmo in espansione 380.000 anni dopo la sua origine nel Big Bang. Da quell’origine sono passati 13,77 miliardi di anni, sono nate e morte stelle, pianeti, galassie e si sono formate ed evolute le loro aggregazioni sui 95 miliardi di anni luce dell’attuale Universo. Su alcuni pianeti e lune si è formata acqua liquida, base necessaria della vita organica come noi la conosciamo.
Dopo il Big Bang l’Universo si espande in modo esplosivo, è caldissimo, un miliardo di miliardi di miliardi di °K, densissimo e buio: sono le Epoche Oscure. Dopo 3 minuti la temperatura scende a 1 miliardo di °K, si formano nuclei di Idrogeno, Elio e Litio, mentre l’enorme densità intrappola ancora la luce. Dopo 380000 anni la temperatura scende a 2700 °K, si formano gli atomi e i la prima luce si diffonde nell’Universo. Dopo altri100 milioni di anni si accendono le prime stelle e iniziano a formarsi pianeti e galassie.
I telecopi spaziali NASA WMAP ed ESO Planck fotografano nel 2012 la prima luce emessa nel giovane Universo. I telescopi ESO VLT a terra e NASA HST nello spazio fotografano le prime stelle formatesi nel gas primordiale. Il telescopio spaziale NASA JWST, mediante la tecnica delle lenti gravitazionali, fotografa nel 2022 la stella singola più antica mai osservata finora, Earendel, nata 12.87 miliardi di anni fa a soli 900 milioni di anni dal Big Bang. Il radiotelescopio ESO ALMA fotografa nel 2018 la nascita di un sistema esoplanetario e nel 2021 la nascita di una esoluna. Sempre ESO ALMA e il telescopio spaziale NASA Spitzer fotografano nel 2022 la galassia più antica mai osservata finora, CEERS-93316, nata 13.55 miliardi di anni fa a soli 236 milioni di anni dal Big Bang. Le galassie, essendo aggregati di fino a 1000 miliardi di stelle, sono visibili a distanze maggiori e tempi più antichi rispetto alle stelle singole per la loro maggiore luminosità.
Infine, stelle e galassie si aggregano in ammassi e superammassi vasti miliardi di anni luce a formare la struttura a rete filamentosa dell’Universo a grande scala, osservata nelle “surveys” astronomiche quali le 2dF GRS e 6dF dell’osservatorio Anglo Australiano del 2003 e del 2009 e studiata con le grandi simulazioni numeriche su supercomputer quali Thesan 2022. L’evoluzione e l’espansione dell’Universo continuano tuttora. Nuove stelle nascono in nebulose quali Carina, osservata dal telescopio spaziale NASA JWST nel 2022, e in galassie quali “Baby Room” osservata dai telescopi spaziali NASA HST e Spitzer nel 2008. Anche nuove galassie nascono continuamente, quali I-Zwicki-18, In formazione da soli 500 milioni di anni, osservata dal telescopio spaziale NASA HST nel 2003.
Restano insoluti i grandi problemi della natura della materia e dell’energia oscura, che condizionano gravitazionalmente la struttura e l’evoluzione dell’Universo, Al futuro della ricerca scientifica affrontare questi problemi e investigare, se possibile, il prima e il dopo del nostro Universo.
Giorgio Sedmak
LA PIÙ GRANDE STORIA MAI RACCONTATA
L’Universo sussiste da molti lunghi anni, una volta combinatosi in movimenti concordanti.
Da questi, segue ogni altra cosa.
LUCREZIO, 50 a.C. circa
Quando tutto ebbe inizio, circa quattordici miliardi di anni fa, tutto lo spazio, tutta la materia e tutta l’energia dell’Universo conosciuto erano contenuti in un volume inferiore a un milionesimo di milionesimo di quello occupato dal punto che conclude questa frase.
Le condizioni erano talmente estreme che le forze fondamentali della natura, con cui descriviamo l’Universo, erano unificate. Anche se non sappiamo ancora nulla sulla sua origine, questo cosmo più piccolo di una punta di spillo poteva solo espandersi. Rapidamente. In ciò che oggi chiamiamo Big Bang.
La teoria della relatività generale di Einstein, secondo cui la presenza di materia ed energia incurva la struttura dello spazio-tempo, è del 1916 ed è alla base della nostra moderna comprensione della gravità. La meccanica quantistica, scoperta negli anni Venti del Novecento, ci permette di comprendere tutto ciò che è piccolo: molecole, atomi e particelle subatomiche. Ma queste due descrizioni dei fenomeni naturali sono formalmente incompatibili, e tra i fisici è partita la corsa a combinare la teoria del piccolo e la teoria del grande in un’unica e coerente teoria di gravità quantistica. Sebbene il traguardo non sia ancora stato raggiunto, sappiamo esattamente dove sono gli ostacoli più alti. Uno di questi si trova nella cosiddetta “era di Planck” dell’Universo primordiale. Si tratta dell’intervallo di tempo da t = 0 a t = 10–43 secondi (un decimilionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo), prima che l’Universo raggiungesse i 10–35 metri (un centomilionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di metro) di estensione. Il fisico tedesco Max Planck, dal quale prendono il nome queste quantità incredibilmente piccole, introdusse il concetto di quanto di energia nel 1900 ed è generalmente riconosciuto come il padre della meccanica quantistica.
Il conflitto tra la gravità e la meccanica quantistica non pone particolari problemi per l’Universo contemporaneo. Gli astrofisici applicano i principi e gli strumenti della relatività generale e della meccanica quantistica a problemi molto diversi tra loro. Ma all’inizio, durante l’era di Planck, il grande era piccolo e sospettiamo che ci sia stato una specie di “matrimonio riparatore” tra le due teorie. Purtroppo i voti scambiati durante quella cerimonia continuano a sfuggirci e nessuna legge (nota) della fisica è in grado di descrivere con certezza il comportamento dell’Universo in quel lasso di tempo.
In ogni caso ci aspettiamo che alla fine dell’era di Planck la gravità si sia divincolata dall’abbraccio delle altre forze, ancora unificate, guadagnando una propria identità ben descritta dalle nostre attuali teorie. Raggiunta l’età di 10–35 secondi l’Universo continuò a espandersi, diluendo tutte le concentrazioni di energia, e le residue forze unificate si separarono nella forza “elettrodebole” e nella forza “nucleare forte”. In seguito, la forza elettrodebole si separò nella forza elettromagnetica e nella forza “nucleare debole”, mettendo a nudo le quattro distinte forze che abbiamo imparato a conoscere e amare: la forza debole responsabile del decadimento radioattivo, la forza forte che tiene insieme il nucleo atomico, la forza elettromagnetica che tiene insieme le molecole, e la gravità che tiene insieme le grandi masse.
È trascorso un millesimo di miliardesimo di secondo dall’inizio.
Nel frattempo l’interazione tra la materia, sotto forma di particelle subatomiche, e l’energia, sotto forma di fotoni (trasportatori senza massa di energia luminosa, al contempo onde e particelle), era incessante. L’Universo era caldo abbastanza perché i fotoni si convertissero spontaneamente in coppie particella-antiparticella, che immediatamente si annichilavano e riconvertivano la loro energia in fotoni. Sì, l’antimateria esiste davvero. E l’abbiamo scoperta noi, non gli scrittori di fantascienza. Queste trasformazioni sono perfettamente descritte dalla più famosa tra le equazioni di Einstein: E = mc2, una formula “a doppio senso” che indica la materia equivalente a una certa quantità di energia e l’energia equivalente a una certa quantità di materia. c2 indica il quadrato della velocità della luce, un numero enorme che, moltiplicato per la massa, ci dice quanta energia otteniamo in questo esercizio.
Poco prima, durante e dopo la separazione delle forze elettrodebole e forte, l’Universo era una zuppa calda di quark e leptoni (con le loro rispettive antiparticelle), e anche delle particelle che consentono loro di interagire, i bosoni. Nonostante ne esistano diverse specie, si pensa che nessuna delle particelle appartenenti a queste famiglie sia scomponibile in qualcosa di più piccolo o fondamentale. Il fotone è un membro della famiglia dei bosoni. I leptoni più noti ai non-fisici sono l’elettrone e forse il neutrino: mentre i quark più familiari sono… be’, i quark non sono così noti. A ognuna delle loro sei diverse specie è stato assegnato un nome con nessun altro scopo filologico, filosofico o pedagogico che non fosse quello di distinguerle: up e down, strange e charm, top e bottom.
I bosoni prendono il nome dallo scienziato indiano Satyendra Nath Bose. Il termine “leptone” deriva dal greco leptos, che significa “leggero” o “piccolo”. Il termine “quark”, invece, ha origini letterarie e molto più fantasiose. Il fisico Murray Gell-Mann, che nel 1964 avanzò l’ipotesi che i quark fossero i costituenti interni di neutroni e protoni, e all’epoca pensava che la famiglia dei quark fosse formata solo da tre membri, prese il termine da una frase tipicamente elusiva del Finnegans Wake di James Joyce: “Three quarks for Muster Mark!”. Ma i quark hanno un vantaggio: i loro nomi sono semplici. Una semplicità che i chimici, i biologi e in particolar modo i geologi non riescono a raggiungere quando battezzano gli oggetti dei loro studi.
I quark sono creature bizzarre. A differenza dei protoni, con carica elettrica +1, e degli elettroni, con carica elettrica –1, i quark hanno carica frazionaria (1/3, 2/3). E non è possibile catturare un quark solitario: si aggrapperà sempre ad altri quark nei paraggi. In realtà la forza che ne tiene insieme due (o più) cresce quanto più si cerca di allontanarli, come se fossero collegati da una specie di elastico subnucleare. Allontanando abbastanza i quark, l’elastico si rompe e l’energia immagazzinata invoca la formula E = mc2 per creare un nuovo quark a ciascuna delle due nuove estremità, facendoci tornare al punto di partenza.
Durante l’era quark-leptoni, l’Universo era così denso che la distanza media tra quark liberi era equivalente alla distanza media tra quark legati. In queste condizioni, non era possibile garantire in modo inequivocabile la fedeltà di legame tra quark adiacenti: vagavano liberi, pur essendo globalmente legati l’uno all’altro. La scoperta di questo stato della materia, una sorta di calderone di quark, è stata annunciata nel 2002 da un team di fisici dei Brookhaven National Laboratories di Long Island, nello Stato di New York.
In base a convincenti argomenti teorici, si ritiene che un episodio accaduto durante i primi istanti di vita dell’Universo, probabilmente durante una delle separazioni tra le forze, abbia causato una lieve ma decisiva asimmetria tra il numero di particelle di materia e il numero di particelle di antimateria: all’incirca una parte su un miliardo. Questa piccola discrepanza passava quasi inosservata in mezzo alla continua produzione, annichilazione e riproduzione di quark e antiquark, elettroni e antielettroni (meglio noti come positroni), neutrini e antineutrini. L’intruso avrebbe avuto moltissime opportunità di annichilarsi, così come tutti gli altri.
Ma non per molto. Continuando a espandersi e raffreddarsi, il cosmo era diventato più grande del nostro sistema solare e la temperatura era scesa al di sotto dei 1000 miliardi di gradi Kelvin.
È trascorso un milionesimo di secondo dall’inizio.
Questo Universo tiepido non era più abbastanza denso e caldo per poter continuare a cuocere la zuppa: i quark dunque scelsero dei compagni di danza, formando una nuova famiglia di particelle pesanti chiamate adroni (dal greco adros, che significa duro, forte). La transizione da quark a adroni diede origine a protoni, neutroni e anche ad altre particelle pesanti meno familiari, tutte composte da varie combinazioni di quark. In Svizzera (tornando qui sulla Terra) il CERN1 utilizza un grande acceleratore per far collidere fasci di adroni nel tentativo di ricreare tali condizioni estreme. Questa macchina, tra le più grandi al mondo, è giustamente chiamata Large Hadron Collider (grande collisore di adroni).
La lieve asimmetria materia-antimateria presente nella zuppa di quark e leptoni si è ora trasferita agli adroni, ma con conseguenze straordinarie.
Con il progressivo raffreddamento dell’Universo, l’energia disponibile per la creazione spontanea di coppie di particelle diminuì. Durante l’era adronica i fotoni non potevano più invocare la formula E = mc2 per creare coppie quark-antiquark. E non solo. I fotoni che emergevano da tutte le restanti annichilazioni cedevano energia all’Universo in continua espansione, scendendo sotto la soglia necessaria a produrre coppie adrone-antiadrone. Per ogni miliardo di annichilazioni, che lasciavano in eredità un miliardo di fotoni, sopravviveva un singolo adrone. Questi lupi solitari si presero tutto il divertimento, fornendo la materia di base per galassie, stelle, pianeti e petunie.
Senza la discrepanza al livello di uno su un miliardo tra materia e antimateria, tutta la massa nell’Universo si sarebbe autoannichilata, dando origine a un cosmo fatto di fotoni e nient’altro: decisamente uno scenario da “E luce fu”.
È trascorso un secondo dall’inizio.
La grandezza dell’Universo è di qualche anno luce, all’incirca la distanza che separa il Sole dalle stelle a esso più vicine. A un miliardo di gradi centigradi fa ancora decisamente caldo, e l’Universo è un ribollire di elettroni che, insieme alle loro antiparticelle, i positroni, compaiono e scompaiono senza sosta. Ma in questo cosmo, che si espande e si raffredda, i loro giorni (in realtà, i loro secondi) sono contati. Ciò che è successo ai quark e agli adroni succede anche agli elettroni: un solo elettrone su un miliardo sopravvive. Il resto si annichila con i positroni in un mare di fotoni.
Più o meno in questo istante è stato fissato nell’Universo un numero equivalente di elettroni e protoni. Quando la temperatura è scesa al di sotto delle centinaia di milioni di gradi, i protoni si sono uniti con altri protoni e con i neutroni per formare i nuclei atomici, delineando un Universo fatto al 90% da nuclei di idrogeno e al 10% da nuclei di elio, con qualche traccia di deuterio (idrogeno “pesante”), trizio (idrogeno ancora più pesante) e litio.
Sono trascorsi due minuti dall’inizio.
Nei successivi 380.000 anni non è successo molto alla nostra zuppa cosmica. Per tutti questi millenni la temperatura è rimasta abbastanza calda da permettere agli elettroni di vagare liberi tra i fotoni, che rimbalzavano avanti e indietro a ogni interazione.
Ma questa libertà finì improvvisamente quando la temperatura dell’Universo scese al di sotto dei 3000 gradi Kelvin (circa la metà della temperatura sulla superficie del Sole) e tutti gli elettroni si combinarono con i nuclei. La traccia residua di questo matrimonio è una sorta di affresco cosmico di luce visibile, che ha fissato per sempre nel cielo la distribuzione della materia in quell’istante, e ha completato la formazione di particelle e atomi nell’Universo primordiale.
*
Per il primo miliardo di anni, l’Universo ha continuato a espandersi e a raffreddarsi, e la materia si è aggregata in grandi concentrazioni che chiamiamo galassie. Se ne sono formate circa cento miliardi, ognuna con centinaia di miliardi di stelle al cui interno avvengono fusioni termonucleari. Le stelle con massa maggiore di circa 10 volte quella del Sole raggiungono temperatura e pressione all’interno del nucleo sufficienti a fabbricare decine di elementi più pesanti dell’idrogeno, inclusi quelli che compongono i pianeti e qualsiasi tipo di vita possa prosperarvi.
Questi elementi sarebbero ora totalmente inutili se fossero rimasti dove si sono formati. Ma accidentalmente le stelle di massa elevata esplodono, proiettando il loro ricco serbatoio chimico nella galassia. Dopo nove miliardi di anni di tali arricchimenti, in un’anonima parte dell’Universo (alla periferia del Superammasso della Vergine), in un’anonima galassia (la Via Lattea), in un’anonima regione (il braccio di Orione), si formò un’anonima stella (il Sole).
La nube di gas da cui il Sole si è formato conteneva una riserva di elementi pesanti sufficiente a raggrupparsi e dare vita a un ricco inventario di oggetti orbitanti, tra cui diversi pianeti gassosi e rocciosi, centinaia di migliaia di asteroidi e miliardi di comete. Per diverse centinaia di milioni di anni, grandi quantità di detriti residui su orbite imprevedibili si sono aggregate per formare corpi più grandi. Ciò è avvenuto per mezzo di collisioni ad alta velocità e alta energia, che hanno reso liquide le superfici dei pianeti rocciosi ostacolando la formazione di molecole complesse.
Al diminuire della materia residua nel sistema solare, le superfici dei pianeti iniziarono a raffreddarsi. Il pianeta che chiamiamo Terra si è formato in una zona decisamente privilegiata, dove gli oceani restano in gran parte liquidi. Se la Terra fosse stata molto più vicina al Sole, gli oceani sarebbero evaporati. Se fosse stata molto più lontana, gli oceani sarebbero congelati. In entrambi i casi, la vita come la conosciamo non si sarebbe sviluppata.
All’interno di oceani liquidi e chimicamente ricchi, tramite un meccanismo che dobbiamo ancora scoprire, le molecole organiche si sono trasformate in organismi viventi autoreplicanti. In questo brodo primordiale i dominatori erano semplici batteri anaerobici, forme di vita che prosperano in ambienti privi di ossigeno ma che a loro volta espellono ossigeno come sottoprodotto. Questi primi organismi monocellulari hanno involontariamente trasformato l’atmosfera terrestre, a quel tempo ricca di anidride carbonica, in un’atmosfera con abbastanza ossigeno da permettere a organismi aerobici di formarsi e dominare oceani e terre. Questi stessi atomi di ossigeno, di solito uniti a coppie (O2), si sono combinati anche in tre per formare nell’alta atmosfera l’ozono (O₃), che serve da scudo per proteggere la superficie terrestre dalla maggioranza dei fotoni ultravioletti (dannosi per le molecole) provenienti dal Sole.
Dobbiamo la notevole diversità della vita sulla Terra, e presumibilmente in altre parti dell’Universo, all’abbondanza cosmica di carbonio e alla miriade di molecole semplici e complesse che lo contengono. Non c’è dubbio: esistono molte più varietà di molecole organiche (ovvero, contenenti carbonio) che molecole di qualsiasi altro tipo.
Ma la vita è delicata. Gli occasionali incontri con grandi comete e asteroidi erranti, eventi un tempo abbastanza frequenti, portano periodicamente scompiglio nel nostro ecosistema. Appena 65 milioni di anni fa (meno del 2% dell’età della Terra), un asteroide da 10.000 miliardi di tonnellate colpì quella che ora chiamiamo penisola dello Yucatán e distrusse più del 70% della flora e della fauna terrestri, inclusi i famosi e ingombranti dinosauri. Estinzione. Questa catastrofe ecologica ha permesso ai nostri antenati mammiferi di occupare le nicchie appena liberate, piuttosto che continuare a fare da antipasto per il T. rex. Un ramo di questi mammiferi dal grande cervello, ramo i cui componenti chiamiamo primati, si è evoluto in un genere e una specie (Homo sapiens) con intelligenza sufficiente a inventare metodi e strumenti scientifici e a dedurre l’origine e l’evoluzione dell’Universo.
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Che cosa è successo prima di tutto ciò? Che cosa è successo prima dell’inizio?
Gli astrofisici non ne hanno idea. O meglio, le nostre idee più creative hanno poco o nessun fondamento sperimentale. Per contro, alcune persone religiose sostengono, con tono di superiorità, che qualcosa deve aver dato inizio a tutto questo: una forza più grande di tutte le altre, una sorgente da cui tutto scaturisce. Un motore primo. Nella mente di queste persone, quel qualcosa è ovviamente Dio.
E se l’Universo fosse sempre stato lì, in uno stato che dobbiamo ancora identificare – un multiverso, per esempio, che dà vita in continuazione ad altri universi? E se invece l’Universo fosse semplicemente comparso dal nulla? E se invece tutto ciò che conosciamo e amiamo fosse solo una simulazione al computer realizzata per gioco da una specie aliena super intelligente?
Queste idee filosoficamente divertenti di solito non soddisfano nessuno. Ma al contempo ci ricordano che l’ignoranza è lo stato mentale naturale per un ricercatore. Chi crede di sapere tutto non ha mai studiato il confine, né mai vi si è imbattuto, tra ciò che è noto e ciò che è ignoto nell’Universo.
Quello che sappiamo, e che possiamo affermare senza esitazioni, è che l’Universo ha avuto un inizio. L’Universo continua a evolversi. E sì, ogni atomo dei nostri corpi risale al Big Bang e alle fornaci termonucleari all’interno delle stelle di grande massa che esplosero più di cinque miliardi di anni fa.
Siamo polvere di stelle diventata vita, siamo stati messi dall’Universo nelle condizioni di poterlo comprendere – e abbiamo appena iniziato.
Tratto da: “Astrofisica per chi va di fretta” di Neil deGrasse Tyson, Raffaello Cortina Editore.